Summum ius summa iniuria
Antigone: il dramma della morte
Gaia Aprea
Dove l'uomo incontra l'eternità, lì è l'autentico spirito della tragedia greca; essa, come opere eccelse della mente umana, quali la Divina Commedia, è il luogo in cui la caducità umana si confronta con aporie senza tempo, con dilemmi che, travestiti e variati dal tempo, tornano implacabili a tormentare ogni epoca dell'umanità. Antigone, in tale ottica, è l'incarnazione sofoclea dell'individuo che si scontra col potere politico, con un potere che, creato da e per gli uomini, si spersonalizza, trascorso hegelianamente il suo sviluppo dialettico, in un insieme di norme, precetti e finalità che schiacciano di fatto gli individui, pretendendo, più o meno implicitamente, di dettar legge anche in quelle zone crepuscolari dove sta il confine tra legge prescrittiva, per dirla con Montesquieu, e legge permissiva, o ancora meglio tra etica e legge, tra giustizia ed equità, tra umanità e morale precostituita, tra diritto soggettivo ed oggettivo.
Visto così, è chiaro che il problema dell'Antigone sofoclea, quello cioè di dar sepoltura al fratello Polinice, come impongono le leggi non scritte degli dei, violando le leggi degli uomini, impersonate da Creonte, è un problema che rimanda in maniera esplicita ad un interrogativo eterno: se le leggi degli uomini entrano in contrasto con la pietas, concetto che comprende sia il rispetto umano che tutto ciò che attiene ai rapporti reali (non e non soltanto legali) tra gli uomini, cosa deve fare l'individuo?
E più in generale, cosa ha a che spartire la morte di un congiunto, in quanto esperienza solo umana, con le leggi dello Stato? Lo Stato deve tacere e sospendere se stesso o può entrare a tal punto nell'esistenza del singolo da calpestare i sentimenti, la pietas, forse anche liberi giuramenti e libere promesse?
Posta così la domanda, è chiaro che la bellissima rielaborazione di Antigone operata da Valeria Parrella, con la regia di Luca De Fusco, andata in scena il 23 aprile al teatro Ambasciatori per la stagione 2012-2013 del Teatro Stabile di Catania, con repliche fino al 5 maggio, pone l'accento proprio su questa domanda, offrendola al pubblico nelle sue conseguenze più estreme, nel suo periglioso confinare col tema dell'eutanasia.
Gaia Aprea e Paolo Serra
Adesso Antigone non deve solo seppellire il fratello: deve innanzitutto strapparlo alla sua condizione di morto-non-morto. Deve staccarlo dalle macchine, togliergli il sondino dell'alimentazione forzata, deve insomma restituire alle Parche il loro ruolo, liberando le forbici di Atropo dalla morsa della tecnologia che le costringe a rimanere immobili. Come l'Antigone sofoclea sa che la sepoltura è parte integrante della morte, parte di una pietas che ci distingue dagli animali, così questa Antigone sa che la vita è ben altra cosa del vegetare attaccati alle macchine, senza coscienza, rattrapiti in un letto, in un limbo di non morte peggiore per i vivi della morte stessa, e per colui che lo subisce, senza più possibilità di mutare o di far smettere tutto ciò, una condizione in cui un solo barlume di coscienza porterebbe ad una sofferenza inumana e impossibile a descriversi. Giacchè chi taccia di assassinio colui che compie eutanasia non si pone questa domanda fondamentale: cosa proverebbe un poveraccio da decenni in vita vegetativa se per un solo, ma lunghissimo istante, tornasse alla coscienza? Dietro questa inquietante rivisitazione di Antigone, rivisitazione in cui la forza tragica si legava con accenti sublimi alla disperazione dell'uomo disumanizzato dalla scienza sua creatura, chi scrive ha risentito gli echi di quell'assurda farsa politica scatenata anni fa dal caso Englaro, quando solo l'autentica laicità di Giorgio Napolitano impedì che la dignità della vita umana, e il dolore di un padre, diventassero oggetto e valuta di commercio politico.
Gaia Aprea, nel ruolo eponimo, ha offerto una magistrale prova di recitazione, slanciando la sua eroina oltre i confini del tempo per renderla tragica e disperata, acre e ironica, spietata con se stessa prima che con gli altri. E riuscita insomma a far emergere la conflittualità archetipa di Antigone, svelando la polivalenza del suo dilemma interiore, guidando lo spettatore nello schiudersi del dramma contemporaneo dalle pieghe del testo greco, e additando al tempo stesso la vera essenza di tale dilemma: la morte è un confine, un confine che si sconta vivendo, un limen sul quale la legge deve arrestarsi, limitandosi a salvaguardare solo quella vita che può definirsi tale perché degna di essere vissuta.
Una compagnia di attori che, coadiuvata dai suggestivi effetti del disegno luci di Gigi Saccomandi e dalle kafkiane coreografie aeree di Maria Teresa Cesaroni, è riuscita a rendere palpabile l'universalità della tragedia greca, sfruttando una recitazione di stampo straniato, ieratico, tesa al dire, ossequiente al testo. Ottima la prova del gelido Paolo Serra, nel ruolo del Legislatore, che ha infuso al suo personaggio tutta la disumanità di un potere che vive solo per conservare e mantenere se stesso. Bravi anche i comprimari Fabrizio Nevola, Giacinto Palmarini, Alfonso Postiglione, Nunzia Schiano e Dalal Suleman. Antonio Casagrande è stato un folgorante Tiresia, che è riuscito a delineate in poche battute, recitate con misura davvero tragica, l'eternità e la profondità esistenziale del dramma di Antigone.
Giuliana Cutore
28/4/2013
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