RECENSIONI
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Tantum religio potuit suadere malorum

Da qualche parte nei suoi saggi, Sigmund Freud parla delle estasi delle sante tipo Teresa d'Avila e Maria Alacoque sottolineando gli aspetti sessuali dei loro rapimenti mistici: in buona sostanza, secondo la psicanalisi, anche la religione entra a far parte di quei meccanismi compensatori messi in atto dalla psiche per tenere a bada le pulsioni dell'Es, gravide di conflitti sia per l'Io che per il Super Io. La religione, in quest'ottica, sarebbe nulla più di un surrogato della sessualità, a livello generale, e un valido alleato del Super Io, di quell'istanza censoria che rappresenta grosso modo il cumulo di divieti imposti all'Io dalla famiglia prima, dalla società poi, per frenare l'onnivora fame di piacere dell'Es, istanza certamente non adatta alla vita sociale dell'uomo, ma senza la quale la specie si sarebbe estinta da un bel pezzo.

Su un altro fronte, la filosofia ha capito da almeno trecento anni che la religione è un valido contenimento sociale, alleato spesso del potre politico, per far crepare la gente di fame senza che protesti troppo: le lotte sociali sono iniziate infatti da quando proletari, contadini e diseredati in generale hanno smesso di credere al Regno dei Cieli che li ricompenserà (non si sa quando) delle loro sofferenze su questa terra.

Date queste premesse, non suona poi troppo strano il testo di Passione, tratto dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis di Giovanni Testori e rielaborato drammaturgicamente da Daniela Nicosia, che ne ha curato anche la regia: certamente si tratta di un lavoro di non agile digestione, almeno per una certa fascia cattolica, ma che ha comunque il merito di mostrare, sin nelle pieghe più riposte, l'assunto freudiano che oggi non dovrebbe scandalizzare più nessuno. La vicenda, articolata in tre distinti spezzoni, quasi una triade hegeliana, narra di una giovane donna, Felicita, che vive in un milieu suburbano, in un periodo più o meno successivo agli anni '60, per la miseria costretta a dormire insieme alle sorelle con l'unico fratello, alle prese con le prime masturbazioni della giovinezza. Dalla curiosità ai primi approcci il passo è breve, complice una promiscuità che guiderà i due giovani verso l'incesto finale, vissuto da entrambi con una sorta di incosciente ferinità, senza troppi scrupoli e totem freudiani.

Il secondo movimento va dalla morte del fratello in un incidente di moto alla monacazione di Felicita: qui lo scavo psicologico della protagonista tocca un culmine magistrale, in un climax ascendente di delirio carnale, che vede l'estasi di Felicita come un delirio amoroso per il Cristo crocifisso, Verbo pericolosamente connesso all'oralità, esplicitamente divenuto il doppio del fratello morto. Estasi erotica che si complica di necrofilia, che allude a fantasie blasfeme, ma della qualre certamente erano pieni i conventi: cos'erano le travolgenti adorazioni delle piaghe di Cristo, le estasi coprofaghe di Maria Alacoque, i deliri di passione di Teresa d'Avila se non i sublimati di una sessualità distorta, avvilita e corrotta da una religione che aveva il suo cardine nella negazione della sessualità sana che greci e latini additavano come una delle manifestazioni del divino e della sua vicinanza all'umano?

Ma Felicita reca nel suo nome una reale aspirazione alla felicità, e la trova in Letizia, giovane adepta del convento: alla luce di un'omosessualità accettata con lo stesso candore dell'incesto, vede ormai nel Cristo, quasi in un'evoluzione sessuale di stampo freudiano, solo un momento di passaggio: il Verbo adesso diviene realtà, una realtà che le iene (sic!) del convento scopriranno, condannando Letizia al ritorno in famiglia dopo un brutale pestaggio, e Felicita agli orrori di un tribunale ecclesiastico. Sembrerebbe tutto perduto, ma l'aspirazione umana della giovane alla felicità è più forte di tutto: ricatta la superiora, minacciando di avere le prove del pestaggio, e riesce a ottenere la libertà e la restituzione dell'amata: due uomini ritroveranno il giorno dopo le donne in un bosco, ormai morte, dopo una notte di estasi amorose, perché nulla ad esse rimaneva se non il suicidio.

Storia cruda, coinvolgente, fatta per scuotere, come dovrebbe essere ogni pièce teatrale: un testo cui il plurilinguismo, fatto di italiano, dialetto brianzolo e latino medievale, dona una patina di atemporalità straniante, simile a certi lavori di Brecht. Essenziale e allusiva la regia, dove le scene di Gaetano Ricci, che trovavano in una croce che fungeva da pedana praticabile il loro snodo focale, contribuivano all'atmosfera claustrofobica in cui si snodava la vicenda di Felicita, prigioniera della miseria, del pregiudizio, della sua carnalità dirompente. Le luci di Stefano Mazzanti, crude, dai colori netti, iperallusivi e taglienti, sottolineavano i movimenti di questa dolorosa vicenda, magistralmente interpretata da Maddalena e Giovanni Crippa, attori di rara classe, che sono riusciti a trapassare con estrema naturalezza per tutti i passaggi di registro che il testo imponeva. Una gestualità violenta e misurata al tempo stesso, capace di trovare anche nei momenti più crudi accenti di dolente umanità, unita ad un uso della voce di rara pregnanza, che la rendeva simile ad uno strumento capace di piegarsi sinanco alle minime esigenze del copione, trascorrendo senza cedimenti dall'urlo al sussurro, dal lamento alla gioia, dall'estasi alla disperazione, il tutto sorretto da una dizione che ha permesso, unita ad una mimica di grande professionalità, sia di non perdere una battuta, sia di rendere fruibile al pubblico siciliano anche le più ostiche particolarità del dialetto brianzolo.

Giuliana Cutore

22/12/2014