Quando «questo Mar Rosso» non è di Puccini
Il Mosè in Egitto al Comunale di Modena
In un anno in cui Tosche e Bohème si sprecano, fa piacere che il circuito dei Teatri emiliani rispolveri una rarità come il Mosè in Egitto di Rossini. Al Comunale Pavarotti-Freni di Modena, in particolare, dove l'ho ascoltato domenica 20 ottobre 2024, latitava addirittura dal 1833 – tanto per dare un'idea, la Lucrezia Borgia di Donizetti debuttava giusto in quel dicembre… – e in effetti, al di fuori del ROF di Pesaro, ove il suo revival ha avuto inizio nel 1985, capita di rado che venga inscenato. Il titolo si inserisce in quel filone di “azioni tragico-sacre” che permettevano ai Teatri di allestire spettacoli anche in tempo di Quaresima, ovvero in un periodo tradizionalmente di sospensione della stagione lirica – da qui la superstizione del colore viola a teatro: il colore dei paramenti liturgici quaresimali, giorni di magra per attori e impresari. Tuttavia, se l'opera trattava un argomento biblico ed era sufficientemente «edificante», per dirla alla Kierkegaard, allora era permessa. In pratica erano opere a tutti gli effetti, con tanto di intreccio amoroso, e andavano bene purché facessero perno su una vicenda biblica. E se Bergamo, l'autunno scorso, ha ripreso in questo senso Il diluvio universale del campione orobico, quest'anno tocca a Rossini e al suo Mosè. Lo compose per il San Carlo di Napoli, dove andò in scena il 5 marzo 1818 su libretto di Andrea Leone Tottola, che si basò in parte sui capitoli relativi dell' Esodo, in parte sulla tragedia Osiride di padre Francesco Ringhieri, «monaco ulivetano e lettore di teologia», come si legge sul frontespizio dell'edizione padovana del 1760; ma la scena della caverna è tratta da Le passage de la Mer Rouge, mélodrame di Augustin Hapdé musicato da Henry Darondeau (Parigi, 15/11/1817). Le differenze col testo ebraico sono state commentate, tra l'altro, in un interessante saggio di Giovanni Frulla (in Materia giudaica, XXIV – 2019).
Quello che nel 1818 venne definito “oratorio” da Rossini stesso, subì le prime modifiche per la ripresa del 1819, con un terzo atto in parte ricomposto e con in più la preghiera Dal tuo stellato soglio, destinata a diventare la pagina più famosa. È proprio questa versione napoletana del 1819, pubblicata da Ricordi, ad ad essere qui rappresentata. Tale versione servì poi da base per la trasformazione in grand opéra col titolo di Moïse et Pharaon (Parigi, 1827), cui seguì la ritraduzione italiana di Calisto Bassi intitolata Mosè (ancora Napoli, 1829): ed in questa veste prese a circolare nell'Ottocento successivo, arrivando persino a influenzare Saint-Saëns col suo Samson et Dalila (1877).
Il ricupero della versione originale del '19, quindi (quella del '17 non è pervenuta), rappresenta un valore aggiunto. Col ricupero anche, mutatis mutandis, delle tecniche di allestimento di un lavoro che puntava per sua natura al grandioso, al solenne – vedi il registro quasi costantemente “alto”, che relega il virtuosismo vocale a funzione esornativa secondaria – e allo spettacolare: le piaghe d'Egitto, la fulminazione di Osiride (come non vederla in chiave prolettica del Nabucco?), le acque del Mar Rosso che si aprono: tutte occasioni per sfoderare le potenzialità delle macchine teatrali; anche un rischio, dato il terzo atto venne riscritto per riscattare musicalmente ciò che nel 1818 fu rappresentato in modo così goffo, da buttare tutto in ridere.
Ma con l'allestimento di Pier Francesco Maestrini, che si avvale delle scene e dei video di Nicolás Boni e delle luci di Bruno Ciulli, questo rischio non si corre. Nessun stravolgimento della vicenda; nessuna attualizzazione, su cui Vick, buon'anima, aveva imperniato al ROF un Mosè che intavolava la questione mediorientale (2011). Piuttosto, la fedele trasposizione delle indicazioni librettistiche attraverso un uso inclusivo e cooperante di scene fisiche sul palcoscenico e scene fittizie sul fondale divenuto qui versatile led wall, di cui viene fatto un uso immaginifico, convincente e coinvolgente, di grande impatto visivo. All'aprisi del sipario, il popolo egizio è prostrato dalla piaga delle tenebre, e sulle vestigia dei palazzi in fondo scorrono pesanti nubi plumbeo-nere, da scenario post-apocalittico; segue a fine primo atto la piaga della folgore, ed ecco tutta la «valle del Nilo» fumare e fiammeggiare. A questi ampi scenari aperti si contrappongono quadri d'interno altrettanto suggestivi, la sala del trono del Faraone, cortili in ombra, le camere private della famiglia reale, tutto rigorosamente decorato a geroglifici o su pareti o su ampie colonne e trabeazioni, per arrivare alla summenzionata caverna, grigio-nera e bianca, con un tenue fascio di luce a indicare lo spiraglio d'ingresso da destra e un fiume carsico a scorrere in mezzo con effetto molto realistico. E, parlando di acqua, non può mancare l'elemento equoreo finale, con un quadro spettacolare di Mosè su una roccia a destra, il popolo ebraico lungo tutta la scena, a intonare Dal tuo stellato soglio (e qui il pensiero va a… Va', pensiero), e sullo sfondo la distesa marina; Mosè la punta col bordone, il muro d'acqua si solleva e si separa; gli Egizi ci finiscono dentro, in realtà uscendo in maniera un po' grossolana sulla destra in fondo al palco; e quando riposano «in fondo al mar placato», Mosè risale sulla stessa roccia di prima, simbolicamente dalla riva opposta, su una musica prima pacificata dopo tanto travaglio, poi echeggiante di trionfo, assieme alle luci che fanno la loro parte nel dar vita all'alba di rinascita sul mare.
È evidente la suggestione del cinema, a partire dall'omaggio evidente nella tunica di Mosè, ricalcata sull'analoga di Charlton Heston nei Dieci comandamenti di DeMille (1956). Che l'accostamento cromatico rammemori la bandiera della Norvegia, è pura coincidenza. Ma Stefania Scaraggi, assistita da Paolo Vitale, ha qui un occhio indovinatissimo nello scegliere fogge e colori dei costumi, dai cenci cinerini degli Ebrei ai corsetti metallici degli Egizi, con vesti e mantelli blu, alle vesti in cuoio di Elcia, fino al tocco alla Yul Brynner di un Mambre completamente calvo.
Tanto merito della riuscita della recita lo ha anche l'aspetto musicale. Giovanni Di Stefano guida l'Orchestra Filarmonica Italiana con braccio fermo, deciso, imprimendo tempi giusti, talvolta forse un tantino rapidi, e sonorità vigorose, seguendo coro e solisti in maniera congrua al testo e alle situazioni e servendo quasi sempre a dovere il canto, dove il “quasi” si spiega con la prevaricazione, rara ma presente, dell'orchestra sulle voci. Molto apprezzata la concertazione dei duetti e in generale degli assiemi, in particolare degli ensemble de perplexité, calibrati secondo uno squisito equilibrio vocale e strumentale. L'orchestra, tolto qualche attacco non del tutto sincrono, soprattutto da parte delle percussioni, fornisce un valido cuscino sul quale i solisti possono adagiarsi e un suono corposo degno di nota. Da segnalare l'ottimo corno di Angelo Borroni e il clarinetto di Giovanni Picciati, le cui volute d'introduzione a La pace mia smarrita e al duetto Dove mi guidi tradiscono l'influsso tardomozartiano sul “tedeschino” Rossini.
Chi si impone sul cast è il Mosè di Michele Pertusi. Deposti i panni di Banco tre giorni fa con l'ultima recita del Macbeth al Regio di Parma (17/10), eccolo trionfare e giganteggiare, anche fisicamente, con un Mosè dal declamato sempre altisonante, fraseggiato, dall'ottima tornitura di parola e forte di un timbro bruno, di un'emissione sempre sul fiato e di un volume vocale impressionante. Caratteristiche note a chi segue e apprezza Pertusi. Non è da meno il suo antagonista, il Faraone di Andrea Pellegrini, molto credibile nel rendere un reggente arcigno, duro e volubile, con movimenti scenici appropriati e verosimili, e in grazia di uno strumento timbrato, scuro e virile, talvolta venato d'una grana ruvida che non stona. Meno convincente l'Osiride di Dave Monaco: pur disponendo di una voce proclive a ruoli rossiniani per impostazione, timbro chiaro e buona proiezione, si rileva una certa legnosità nelle colorature, gli acuti stentano a trovare una loro rotondità, e l'affondo nel grave perde di volume; restano i centri, ben fatti, e una naturale musicalità che lo porta a fondersi bene nei duetti prima col Faraone, poi con Elcia. L'Aronne di Matteo Mezzaro si distingue per un buon squillo e buone capacità interpretative, sia canore, sia sceniche, per quanto la voce permanga un po' aspra e spigolosa. Si distingue però nella seconda strofa della preghiera al terzo atto, dove stimola, almeno in chi scrive, punte di autentica commozione. Poco incisivo infine il Mambre di Andrea Galli, di giusto stampo rossiniano ma di voce un po' troppo esile per il ruolo; gli va riconosciuta tuttavia una convincente prestazione attoriale.
Il versante femminile appare più omogeneo, attestandosi su una qualità media superiore. A partire dall'Amaltea di Mariam Battistelli, semplicemente magnifica: una voce purissima e cristallina di soprano di coloratura, una lama di voce in grado letteralmente di stupire nelle agilità e nell'estensione dimostrata in La pace mia smarrita (ripresa da Ciro in Babilonia), con un sovracuto finale da premiare sia per l'arditezza, sia per la riuscita, non ottimale ma prossima ad esserlo. Qualità che, unite a una spiccata scioltezza di movimenti sulla scena e a un physique du rôle invidiabile, ne fanno un'interprete credibile e vincente. Caratteristiche vocali diversissime ma ugualmente valide per la Elcia di Aida Pascu, dotata di voce pastosa, calda, uno strumento vellutato e avvolgente atto a incarnare il personaggio più sentimentale dell'opera, anch'essa disinvolta sulla scena e con un compianto sul corpo di Osiride morto da vera attrice professionista. Completa il cast l'ottima Amenofi di Angela Schisano, cui bastano pochi e puntuali interventi per esibire voce salda e sostenuta.
Da segnalare infine il Coro Lirico di Modena, chiamato a impersonare sia gli Egizi, sia gli Ebrei, e in grado in entrambi i casi di essere all'altezza della situazione grazie alle premure di Giovanni Farina. Giustamente bissato Dal tuo stellato soglio, in cui ha modo, assieme a Pertusi, Mezzaro e Pascu, di riscuotere unanime consenso da parte di un Comunale quasi al completo.
Christian Speranza
23/10/2024
Le foto del servizio sono di Rolando Paolo Guerzoni.
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