Il pianista Francesco Libetta
al Teatro Bellini di Catania
L'interpretazione musicale rimarrà sempre un concetto dalla difficile e difficoltosa definizione, per non dire ineffabile ed inafferrabile. Le indicazioni metronomiche, in uno con i segni della dinamica e dell'agogica, genericamente designate come indicazioni espressive, dovrebbero delimitare le “invadenze” dell'interprete riguardo al testo anche se nell'arte musicale lo scarto fra la pagina scritta e la sua resa sonora rimarrà sempre molto più ampio rispetto ad un testo scritto (sia esso di poesia o prosa), ad un quadro o ad una scultura, sempre ed assolutamente immobili nella loro realtà effettuale. Il margine di azione sul testo musicale da parte dell'interprete è stato sempre talmente esteso e ampio da fare ravvisare e individuare ad un filosofo come Giovanni Gentile in tale figura qualcosa di simile al genio creatore. Il concertista attualizza gli spartiti che senza la sua esistenza e presenza rimarrebbero meri silenziosi segni sulla carta pentagrammata e nient'altro.
Non vogliamo certo nello spazio di un articolo esaurire un argomento che ha fatto scorrere oceani d'inchiostro agli studiosi del settore, ma tale premessa ci pare assolutamente pertinente per azzardare un giudizio sensato ed equilibrato sul recital del pianista Francesco Libetta avvenuto al Teatro Massimo Bellini di Catania venerdì 20 novembre 2015.
Il prestante interprete si è esibito nel primo tempo dello spettacolo nelle Variazioni sul tema Nel cor più non mi sento di Giovanni Paisiello, realizzate da Ludwig van Beethoven; La serenata del marinaio di Saverio Mercadante nella trascrizione di Franz Liszt, concludendo con quattro brani di Fryderyk Chopin: Polacca n. 1 op. 40 in la maggiore, Grande Valzer op. 42 in la bemolle maggiore, Studio n. 3 op. 10 in mi maggiore e Scherzo n. 3 op. 39 in do diesis minore. Nella seconda parte ha invece eseguito La cura di Franco Battiato in una sua personale trascrizione, il Mephisto-Walzer di Franz Liszt e la Sonata per pianoforte op. 109 n. 30 in mi maggiore di Ludwig van Beethoven.
E indubbio che l'intero programma da concerto è stato realizzato con una padronanza tecnica notevole e con un certo impeto dirompente, ma a parer nostro l'assalto atletico alla tastiera, l'irruenza fonica, la roboanza sonora, il fragoroso strappo accordale, restano tutti epifenomeni che nulla hanno a che spartire con la vera essenza dell'interpretazione musicale, cioè la tangibile penetrazione di un pezzo e la sua resa strutturale, logica, emotiva e psicologica. Specialmente compositori come Ludwig van Beethoven e Fryderyk Chopin, che non solamente restano pietre miliari della storia della musica, ma sono stati anche eseguiti da grandi maestri, non solo nei modi più geniali ed estrosi ma anche più profondi e significativi, non possono venire liquidati oggi, nell'epoca, come direbbe Walter Benjamin, dell'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, solo con una vigorosa e salda ginnastica digitale. Il pianista non è e non può essere unicamente un energico dattilofono, egli ha il dovere di “interpretare”, cioè di fare da tramite tra l'autore ed il pubblico, di porgere all'ascoltatore il mondo lirico ed emotivo del creatore, di farlo rivivere e riproporre al presente, senza inutili e banali esibizionismi ed acrobatismi personali che fungano da inutili deviazioni e distrazioni di quella che è e rimane il concreto contenuto di ogni opera d'arte che si rispetti: la sua tangibile e densa umanità!
Giovanni Pasqualino
24/11/2015
La foto del servizio è di Giacomo Orlando.
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