La pietra del paragone
al Rossini Opera Festival
Il Festival 2017 potrebbe essere sottotitolato “le seconde edizioni”. Infatti, oltre al precedente Siège de Corinthe, anche per La pietra del paragone trattasi del secondo allestimento nella città natale del compositore, come lo sarà anche la successiva opera in programma. La Pietra del paragone, melodramma giocoso in due atti, è un punto di riferimento nella prima parte della carriera di Gioachino Rossini. Fu il primo titolo commissionatogli dal Teatro alla Scala, se non il più importante teatro italiano dell'epoca uno dei punti d'eccellenza musicale della penisola. La scrittura scaligera fu sicuramente motivata dai successi e dalla fama che il compositore andava conquistando, ma sicuramente un appoggio decisivo fu quello che fornirono Filippo Galli e Maria Marcolini, cantanti di fama, scritturati in quella stagione al teatro milanese, ai quali sarebbero stati destinati i ruoli principali della nuova opera del giovane Rossini. I due cantanti avevano già cantato lavori del pesarese e avevano instaurato un ottimo rapporto con l'autore, oltre a essere consapevoli che la sua musica avrebbe valorizzato quanto nessun'altra le loro doti di cantanti e artisti: pertanto la scrittura vocale de La pietra è fortemente influenzata dalla peculiarità dei due sommi artisti. Com'era prassi al tempo, e Rossini non era da meno, nell'opera furono riprese molte pagine di altri lavori che il compositore riteneva di comprovato valore. L'opera è di difficile programmazione per l'arduo impegno riservato ai cantanti, non solo i protagonisti, ma anche agli altri, i quali sarebbe riduttivo e improprio definire secondari. Infatti, le esecuzioni della Pietra, dal 1950 in avanti, si possono contare sulle dita di due mani, e sarebbe qui superfluo farne un elenco. Piuttosto è più interessante rilevare che la prima edizione pesarese del 2002 si basava sull'edizione critica curata da Patricia B. Brauner e Andres Wilkund, i quali hanno approntato l'aggiornamento proposto per l'odierna edizione, esaminando ulteriori diverse fonti secondarie, oltre a documenti che si riferiscono alla genesi e alle successive riprese. Queste includono undici copie manoscritte della partitura e due manoscritti incompleti, quattordici pezzi singoli, più due della sostituzione fatta per la prima ripresa a Venezia del 1812. Abbiamo avuto pertanto il piacere di ascoltare una Pietra del paragone leggermente diversa da come la ricordavamo dal 2002, più completa e sotto taluni aspetti rinnovata nell'orchestrazione.
Lo spettacolo proposto era firmato in regia, scene e costumi da Pier Luigi Pizzi, stesso artefice dell'allestimento del 2002, qui modificato per gli spazi dell'Adriatic Arena, riadattato nei costumi e nella regia in funzione della nuova edizione critica. Tutta l'azione si svolge in una villa, forse una dimora per le vacanze, di bellissima fattura architettonica che potremmo collocare approssimativamente negli anni 60-70 del secolo scorso. La vicenda è sviluppata in una regia molto elegante, proprietario e ospiti nobili o ricco borghesi gozzovigliano in una vita tipicamente balneare tra drink, partite di tennis, battute di caccia. Un soggiorno agiato e spensierato, ma che al suo interno contiene i classici elementi di ogni epoca, l'amore, l'arrampicamento sociale e l'approfittare di situazioni superiori al proprio stato. Pizzi realizza uno spettacolo molto godibile, fresco, vivace e molto divertente, tracciando con garbata ed esperta mano una vita forse più immaginabile che reale, ma sempre sul filo di un savoir vivre d'altri tempi. Tutti i personaggi sono ben focalizzati nei loro intenti genuini, e lo spettatore ne esce appagato. Meravigliosi i costumi, soprattutto quelli femminili, ma anche gli uomini sovente in giacca bianca, quando non in costume da bagno quando si utilizza una vera piscina. Unico neo da rilevare è che il regista, rispetto all'edizione del 2002, abusa oggi di molte scene macchiettistiche che hanno tolto quella tinta elegante che preferivo nello scorso allestimento. Anche i costumi in parte sono cambiati e pur nella grande classe del costumista, erano più gradevoli i precedenti.
Anche in questo spettacolo è impegnata l'Orchestra Sinfonica della Rai, che conferma l'ottima professionalità anche perché guidata dalla frizzante bacchetta di Daniele Rustioni, al suo secondo incarico al Festival. Il maestro milanese inizia subito con una sinfonia molto incalzante e ben staccata nei tempi. Prosegue con ottima fattura narrativa, un ritmo molto teatrale e squisitamente brioso come la partitura richiede. Si dimostra esperto concertatore anche nel cesellare i passaggi più lirici o semiseri come l'aria di Giocondo, pur mantenendo lo stile rossiniano scoppiettante negli assiemi e nelle cabalette. Doveroso rilevare che Rustioni è consapevole delle qualità del cast e la sua direzione è sempre stata in funzione del canto, con un accompagnamento molto peculiare alle necessità dei cantanti. Una prova davvero ragguardevole, nella quale si denotano eleganza e ispirazione. Altrettanto buona la prova del Coro Maschile del Teatro Ventidio Basso, diretto da Giovanni Farina, che partecipa allo spettacolo in maniera precisa e inappuntabile.
Il cast nel suo complesso non era perfettamente azzeccato, soprattutto nelle scelte azzardate per i ruoli. Delude il Conte Asbrubale di Gianluca Margheri, il quale ha evidenti problemi nei passi di coloratura, non trova un terreno fertile per la sua vocalità, troppo contenuta per il ruolo, cui si deve aggiungere anche una precaria intonazione. Il personaggio scenico era invece ben realizzato ma si doveva anche ascoltare. Altrettanto fuori parte la giovane Aya Wakizono, Marchesa Clarice, che affronta un ruolo di autentico contralto con una voce quasi da soprano. Infatti nel settore grave era completamente afona, e il registro acuto molto limitato. Nei concertati era sovente coperta, sotto taluni aspetti in qualche duetto si poteva apprezzare una certa varietà d'accento ma naufragava clamorosamente nella grande aria del II atto per insufficienza di mezzi. Meglio il Pacuvio di Paolo Bordogna, che sfodera un talento teatrale innato (anche se potrebbe contenersi dal superfluo) e trova momenti felici con una voce ampia e ben dosata e un'aria spassosissima. Molto apprezzabile Davide Luciano, Macrobio, cantante molto preciso nel canto sillabato attraverso una voce rifinita ed eguale in tutti i settori.
Il miglior interprete era Maxim Mironov, tenore che da tempo ci ha abituato a felici esibizioni. Anche in quest'occasione non è stato da meno, anzi l'eleganza del personaggio, quasi patetico, e l'esibizione vocale sono stati di grande valore. La sua grande aria era cantata con dizione impeccabile e morbido abbandono, cui si aggiunge, in tutta l'opera, un canto sempre corretto e forbito e non meno efficace nei passi di agilità, aspetti che confermano le qualità del tenore russo come una delle migliori carte spendibili nei ruoli rossiniani e non solo. Molto acerbe e squilibrate sia Marina Monzò, Donna Fulvia, sia Aurora Faggioli, Baronessa Aspasia, che vocalmente dimostravamo molto mancanze, anche se i personaggi erano divertenti. Bravissimo invece William Corrò, Fabrizio, efficiente cantante, rifinito e impeccabile nei brevi interventi. Successo clamoroso per tutti al termine.
Lukas Franceschini
19/8/2017
Le foto del servizio sono dello Studio Amati Bacciardi di Pesaro.
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