RECENSIONI
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Un Giacomino… che dà da pensare!

Per rappresentare degnamente Pensaci, Giacomino!, uno dei testi più celebri di Luigi Pirandello, banco di prova di attori del calibro di Sergio Tofano, Salvo Randone e Turi Ferro, che hanno scolpito ciascuno a suo modo la figura del professor Agostino Toti, bisogna tener presente che la commedia, del 1917, trova il suo nucleo originario in una novella del 1910, dalla quale fu poi tratta una prima versione, in siciliano, su richiesta di Angelo Musco, e solo successivamente quella italiana, che oggi viene per lo più riproposta sulle scene. Dunque Pensaci, Giacomino! può esser rappresentato tenendo presente il suo originario nucleo vernacolare o meno, ma da questa originaria scelta debbono necessariamente dipartirsi sia le opzioni scenografiche, sia quelle inerenti gli attori in senso stretto: bisogna cioè decidere a priori se si vuol puntare più sul Pirandello naturalistico o sulla linea drammaturgica dell'agrigentino che avrebbe trovato il suo approdo finale nel ciclo del teatro nel teatro o in quello dei miti.

Fabio Grossi propone allo Stabile di Catania, dal 30 ottobre all'11 novembre, una lettura drammaturgica di Pensaci, Giacomino! che, pur interessante sotto certi aspetti, per altri versi non può non lasciare alquanto perplessi, e proprio per non aver saputo prendere una decisione circa le opzioni possibili alle quali si accennava sopra. Innanzitutto ha spostato l'azione agli anni '50, il che non è poi un gran male, anzi un'operazione perfettamente lecita, soprattutto tenendo conto della prospettiva astorica, esistenziale cioè, sulla quale è incentrata tutta l'attività letteraria di Pirandello. Corollario di questa scelta è stato poi l'abbandonare l'uso del voi di cortesia a favore del più moderno lei, anche se qua e là lo spettatore potrà notare qualche residuo del voi, frutto di dimenticanza o di precisa opzione stilistica non è dato sapere…

Il copione pirandelliano in due atti, pur se ridotto ad atto unico, sostanzialmente c'è tutto, e per fortuna non ci sono intrusioni che esplicitino la postdatazione agli anni ‘50, tranne quelle musicali di Germano Mazzocchetti, molto interessanti queste ultime, e comunque aderenti al contesto e non intrusive: unica differenza, ma nemmeno importante, è il far chiamare da Toti il cavalier Diana, nella didascalia originale direttore del Ginnasio, signor preside invece che signor direttore. Sembrerebbe dunque una lettura drammaturgica quanto mai fedele, è in effetti lo è: il vero problema, almeno a nostro parere, sono le scelte registiche di Grossi, praticamente in rotta di collisione con le bellissime scene e i costumi di Angela Gallaro Goracci e con le luci di Umile Vainieri. La scena su cui si apre il sipario, o meglio il velatino affollato da sagome dipinte che ritraggono volti grotteschi che si riproporranno sul palcoscenico, simbolo dell'ottuso perbenismo sociale della cittadina in cui vive Toti, è di fatto una scena di taglio espressionista, dominata da luci forti, da colori violenti, da un'attrezzeria ridotta al minimo sulla quale gli attori dovrebbero stagliarsi come su un bassorilievo di cemento, giusto il dettato espressionista. Anche i costumi, fortemente simbolizzati, dovrebbero rendere, almeno nelle intenzioni, gli attori più maschere che personaggi in senso tradizionale. A questo punto sarebbe lecito e congruente attendersi una recitazione un po' straniata, ma comunque fredda, algida, magari didascalica ma assolutamente non naturalistica. La scelta registica di Grossi optava invece, almeno a partire dalla fine della prima parte, verso un'improvvisa virata sul fronte regionalistico, accentuato anche dalla dizione sporca imposta quasi a tutti gli attori, e da una gestualità talvolta francamente esagitata, come nella scena tra Cinquemani, la moglie di questi, Giacomino e Lillina che, seppur voluta da Pirandello rapida, in gran confusione, violentissima, con le battute accavallate, è risultata troppo infarcita di Martoglio per non stridere con il contesto scenografico di tutt'altro tenore.

Nella seconda parte, tranne per la scena tra padre Landolina, superbamente interpretato da Sergio Mascherpa, che ha prestato al prete tutta l'untuosità e l'ipocrisia possibili in un prelato, e il professor Toti, interpretato da Leo Gullotta, la conduzione registica non è stata migliore, proprio per non aver saputo affrontare la scelta tra naturalismo e espressionismo di cui parlavamo prima.

Tutti gli attori, a partire da Gullotta, seguitando poi con Federica Bern, Lillina, Marco Guglielmi, Giacomino, Valerio Santi, Cinquemani, Rita Abela, Marianna, Valentina Gristina, Rosaria, la sorella di Giacomino, Liborio Natali, il direttore Diana, e Gaia Lo Vecchio, che ha interpretato le due serve, quella di casa Toti (abbastanza esagitata) e quella di casa Delisi, hanno svolto il loro compito con estrema professionalità, ma non si può dire che non siano stati penalizzati dalle scelte registiche, in quanto i loro personaggi sono apparsi spesso caricati, gravati da una recitazione troppo rapida, a tratti convulsa, che ha impedito l'uso di pause appropriate che avrebbero consentito alle battute, ma soprattutto al personaggio pirandelliano, portavoce del dramma, di emergere come avrebbe dovuto: un esempio ne è stato purtroppo il finale, recitato con troppa fretta, quasi gettato lì, senza quella lentezza che avrebbe consentito alle battute chiave di Toti di esprimere tutta la carica anticonformistica della commedia.

Giuliana Cutore

5/11/2018