RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il mondo del felice è un altro che quello dell'infelice

Si insiste molto sul ruolo che in Luigi Pirandello avrebbe la tematica dell'incomunicabilità tra gli esseri umani, il che è senza dubbio vero, giacché se ciascuno nel linguaggio si porta dietro il proprio vissuto, e non ha altro modo di esprimerlo se non attraverso la parola, il dialogo tra due persone è contemporaneamente incontro di emozioni, di status sociale, di ideologia politica, di approccio alle cose, di uso dei vocaboli a partire da una determinata formazione culturale, di interessi materiali e via dicendo, per cui attraverso il linguaggio sono mondi talvolta antitetici che dovrebbero incontrarsi, o scontrarsi, o comunque entrare in dialogo. Come si vede, il tema dell'incomunicabilità si tira dietro anche il tema dell'approccio al mondo dell'interlocutore, dunque il tentativo, spesso non riuscito, di accostarsi al vissuto dell'altro, alle sue emozioni, alle sue gioie e sofferenze, insomma a una dimensione esistenziale che coinvolge tutto l'essere umano, e della quale il linguaggio è una parte essenziale, ma non l'unica.

Come si sa, i primi decenni del Novecento videro la filosofia molto impegnata sul fronte del linguaggio, ma soprattutto sulla crisi delle certezze scientifiche assolute propagandate dal Positivismo e sulla scoperta della dimensione esistenziale dell'essere umano, il che diede origine a una maggiore considerazione della soggettività rispetto alle filosofie sistematiche dell'Ottocento. Del 1918 è uno scritto abbastanza oscuro e di ostica lettura, ma che avrebbe rivoluzionato l'indagine filosofica, e che per alcuni suoi asserti avrebbe segnato indelebilmente la storia della filosofia moderna: il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, nel quale è contenuta un'asserzione fondamentale: “I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo”.

E proprio questa frase andrebbe tenuta presente nel considerare la tematica espressa nell'intenso atto unico scritto dal grande agrigentino nel 1922, L'uomo dal fiore in bocca, in scena dal 16 al 18 dicembre al teatro L'Istrione di Catania, per la regia di Valerio Santi, che ne è stato, insieme a Concetto Venti, l'interprete principale. La trama è nota: un uomo, segnato da una malattia che lo porterà a breve alla tomba, entra casualmente in contatto con l'Avventore, uno sconosciuto incontrato a tarda sera nel bar di una stazione. Da qui un serrato dialogo, inizialmente sconnesso almeno in apparenza, durante il quale comincia a farsi strada il sospetto che L'uomo dal fiore in bocca abbia un segreto che lo rende distaccato, quasi al di sopra dalla consueta realtà quotidiana, fino alla rivelazione del tumore che si porta dentro, al quale ha reagito distaccandosi precocemente dalla vita, facendo di tutto per scorgerla disgustosa, senza però purtroppo riuscirvi.

Come si vede, due mondi, due linguaggi a confronto, dunque l'incontro-scontro di due limiti: e su questa tematica, esemplata anche dal non aver dato nomi ai protagonisti, connotandoli solo in base al loro vissuto, Santi, curando la regia, ha rielaborato con misura il testo pirandelliano, da una parte ambientandolo in un bagno, presumibilmente di una stazione, luogo anonimo per eccellenza, segnato da una squallida e sudicia quotidianità sulla quale la sventura del protagonista si staglia con dolorosa prepotenza, dall'altra assegnando un ruolo più pregnante all'Avventore, nel testo originario poco più di una spalla, ma questo senza alterare le battute, semmai, come all'inizio, facendogli ripetere più e più volte, in maniera ampliata, il leit-motiv dei pacchetti, della moglie e delle figlie, amplificandone la disperazione per il ritardo che gli ha fatto perdere il treno. In questa originale ma fedele rielaborazione, i due attori acquisiscono ancor di più e in maniera assolutamente ostensiva il loro carattere di maschere nude, ciascuna con il proprio mondo, chiuso e incomunicabile se non a tratti all'altro, dove i rari momenti di sintonia sono affidati più al gesto, all'espressione, al linguaggio del corpo.

La scenografia, iperrealistica, con cartacce in terra, dai colori sporchi e opachi, dà un senso di abbandono, quasi da terra di nessuno, e trova il suo contrasto nelle luci fredde e impietose di Dario Lanza, che mettono ben in risalto la mimica, i repentini cambi di espressione e di movenze dei due attori. Concetto Venti, L'Avventore, riesce senza sforzo né caricatura a tratteggiare il perfetto uomo quotidiano, mediocre, la cui vita si riduce a un andirivieni tra un luogo e l'altro, dal mondo chiuso, ristretto, totalmente borghese, dominato dalla paura della moglie e dall'insofferenza per un'esistenza alla quale non può e non vuole sottrarsi, mentre Valerio Santi, con una recitazione più distaccata, cupa, talvolta fredda, dai contorni espressionistici, ha creato un personaggio in crescendo, proteiforme, in un continuo divenire, passando senza sforzo dalla scanzonata presa in giro dell'Avventore alla cupa disperazione che emerge a tratti come un lampo nelle tenebre, alla rabbia, alla disillusione, al rimpianto, sino alla preghiera finale, dimessa ma timidamente accorata, quando prega l'Avventore di scegliere un grosso cespuglio per contare gli steli, nella speranza che anche la sua vita possa durare qualche mese in più. Entrambi gli attori, cosa rara di questi tempi, hanno dato prova di una dizione egregia, sia nei momenti più colloquiali che in quelli concitati, permettendo così agli spettatori di non perdere nemmeno una battuta di un testo bellissimo, troppo spesso trascurato per la sua brevità da teatri ben più blasonati, tesi a privilegiare il Pirandello regionale e di repertorio a scapito di quello dove più profonda e devastante è l'analisi della dimensione umana.

Giuliana Cutore

20/12/2022

Le foto del servizio sono di Giovanna Mangiù.