Il Pirata
alla Scala di Milano
Sessant'anni dopo, l'opera Il Pirata di Vincenzo Bellini torna al Teatro alla Scala, in un nuovo allestimento curato da Emilio Sagi, coproduzione con il Teatro Real di Madrid e San Francisco Opera. Indubbio che i confronti con il passato ci sono e ci saranno sempre, anche per la dose di mistero che circonda l'opera. Creata nel 1827 alla Scala, l'opera segna il definitivo successo del compositore, che con questo titolo pone l'inizio dell'opera romantica italiana. I personaggi che popolano i nuovi lavori operistici sono figure emblematiche del Romanticismo, eroi idealisti con epiloghi tragici. Di pari non è possibile non considerare la voga letteraria del momento, che trova nella città lombarda un fulcro attivissimo anche per la presenza di traduttori rilevanti. Per l'esordio scaligero Bellini aveva a disposizione una compagnia di altissimo livello come Giovanni Battista Rubini, Henriette Méric-Lalande e Antonio Tamburini. Bellini oltre a porre molta perizia nella stesura dello spartito, studiò accuratamente le caratteristiche vocali dei tre assi, e scrisse “su misura” laddove la forza espressiva vocale è predominante nell'arcata melodica. Il recitativo non è più un semplice segmento di congiunzione bensì un ragguardevole momento di espressione cui necessita uno spiccato intuito interpretativo. Non meno importante lo stile del protagonista, il quale affronta una tessitura molto acuta, senza le abituali colorature, di tenore con timbro chiaro, forte passione e slancio espressivo. Noi non sappiamo come cantarono i tre “big” nel 1827, e neppure gli altri tre molto più famosi nelle recite del 1958 poiché non esiste una registrazione della serata. Tuttavia dei secondi si possono comprendere lo stile e la vocalità attraverso una vasta discografia. Da questo punto di vista possiamo affermare che il tenore non era sicuramente il cantante stilisticamente ideale per il ruolo ma era l'artista che più di altri avrebbe potuto affrontare la parte, la quale vista sullo spartito è quasi ineseguibile per le difficoltà previste. Diversamente il baritono non pone particolari problemi mentre il ruolo di Imogene è simile ad altri difficili ruoli dello stesso Bellini ma nell'insieme non impossibile. Il problema si pone quando si vogliono a tutti i costi affrontare titoli per i quali non ci sono i cantanti ideali. Non si tratta di nostalgia del passato, chi scrive non c'era a Milano nel '58 (e neppure a Firenze nel ‘67) ma se certe opere sono state riproposte in un preciso momento, questo significa che allora si era in presenza di cantanti di particolari capacità o caratteristiche indispensabili. La Scala, che pare voglia intraprendere una peculiare proposta di belcantismo, dovrebbe prima verificare chi ha a disposizione prima di programmare. Le spese le ha fatte Piero Pretti (un po' incauto nell'accettare) il quale dopo l'esito non felice ma sorpassato della scorsa Anna Bolena , non era certo il cantante da scritturare per Il Pirata. Pretti è un bravo tenore e la carriera parla da sola ma in quest'occasione era fuori ruolo. Forse ci sarebbero state altre figure, poche per la verità, ma alla Scala fino a ora non ci sono arrivati o vi hanno fatto una breve e isolata comparsa.
Come dicevo Pretti, Gualtiero, è un serio professionista cui va riconosciuto carattere e coraggio nell'affrontare il ruolo, cercando di fare del proprio meglio. Egli è incisivo interprete nel recitativo, i sovracuti sono lacunosi, ma sorvoliamo, alcuni passaggi non sono del tutto calibrati, ma è lo spessore vocale richiesto che mette a dura prova il cantante. Questo fino alla fine del I atto. L'intervallo protrattosi per quasi tre quarti d'ora, ha visto lo spazientirsi del pubblico, il quale quando è entrato sul palcoscenico il sovrintendente Alexander Pereira ha iniziato un battibecco, fortunatamente subito smorzato. L'annuncio era che il tenore aveva avuto un abbassamento di pressione, e pertanto era indisposto, avrebbe comunque cercato di portare a termine la recita (non c'era un doppio?) pur adattandosi a cantare seduto. Il secondo atto è stato eseguito ma non è corretto farne una cronaca, al termine il cantante è stato applaudito per la volonterosa prova.
Sonya Yoncheva, Imogene, proclamata troppo azzardatamente star dai teatri esteri, possiede la bella voce che sappiamo ma il tutto si ferma li. Le doti naturali non sono messe al servizio del ruolo: mai un accento, una nota filata, la zona grave è poco espressiva e pertanto artefatta. Inoltre la cantante non possiede quel carisma interpretativo belcantista, che non è recitazione attoriale ma recitazione canora, utilizzando colori, accenti e fraseggi di rilevante drammaturgia. Tuttavia nel complesso la prova è superata con professionalità, anche se nel finale, non elettrizzante, si notava un certo affaticamento. Delude molto Nicola Alaimo, Ernesto, per una linea di canto quasi irriconoscibile e uno stile del tutto personale al di fuori del ruolo. La parte non è di enorme difficoltà ed è stato strano trovare il cantante così estraneo a un ruolo, poco gratificante, ma con almeno due momenti importanti. Inoltre, l'interprete è sempre monotono e scontato.
I migliori sono gli artisti che ricoprono i ruoli secondari. La stilizzata e precisa Marina De Liso, Adele, è un lusso anche per la resa teatrale. Il giovane Riccardo Fassi, Goffredo, eccellente cantante con grande presenza, è artista da tenere d'occhio perché potrebbe riservarci in futuro prove luminose. Lodevole anche Francesco Pittari, sempre musicale e preciso artista nel ruolo di Itulbo.
Non entusiasma la direzione di Riccardo Frizza, la quale è caratterizzata da lentezza, scarsa incisività nella tavolozza dei colori che penalizzano fortemente una drammaturgia musicale e armonica che proprio in un'opera romantica come questa costituisce tessuto basilare su cui poggia tutta la rappresentazione. A suo favore si deve registrare la quasi integralità dello spartito.
Un vero e proprio successo la prova del Coro del Teatro alla Scala, istruito da Bruno Casoni, il quale più che in altre occasioni assolve il proprio compito in maniera superlativa.
Lo spettacolo di Emilio Sagi cade in una banale routine senza lasciare traccia, anzi semina parecchi dubbi. Un cubo a specchi sovrasta il palcoscenico, si solleva e si schiude secondo le esigenze ma senza creare atmosfera. Sullo sfondo compaiono dipinti di brughiera che non trovano corrispondenza con la Sicilia, come non lo trova l'ambientazione spostata nell'ottocento. La recitazione è banale ma corretta, e l'unica scena da ricordare è quella finale. La scena senza riferimenti è di Daniel Bianco, mentre i meravigliosi costumi sono creati da Pepa Ojanguren.
Alla terza rappresentazione cui abbiamo assistito, a parte la querelle menzionata, poco entusiasmo durante la recita ma al termine cordiale consenso alla compagnia di canto.
Lukas Franceschini
17/7/2018
Le foto del servizio sono di Brescia e Amisano.
|