RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Uno scandalo che dura da diecimila anni

Premesso che sarebbe davvero auspicabile che non fossero più necessarie giornate come quella del 25 novembre, dedicate alle migliaia e migliaia di donne vittime della violenza, e non solo maschile, violenza che si esercita in maniera vile, sanguinosa, omicida e sfruttatrice in tutto il pianeta, sotto qualunque bandiera politica e sotto ogni simbolo religioso, in misura direttamente proporzionale alla miseria, all'ignoranza, al degrado, alla superstizione e allo sfruttamento della miseria altrui; premesso tutto ciò, e considerando il 25 novembre una sorta di commemorazione dei defunti specificamente femminile, va senz'altro a grande merito dello Stabile di Catania non aver passato sotto silenzio tale evento, ma avervi contribuito con una bellissima pièce teatrale, andata in scena al Musco, cruda e graffiante, ma al tempo stesso feroce nella sua denuncia senza appello di una serie infinita di donne uccise dal pregiudizio religioso, dalla miseria, dal degrado, dalla colpevole ignoranza, ma sarebbe meglio dire dalla criminale avidità, di certe multinazionali, che considerano le operaie, ma naturalmente anche gli operai, poco più di bestie da soma il cui destino finale è comunque il macello.

La città di plastica nel giardino dei sogni, di Silvia Resta e Francesco Zarzana, traccia attraverso tre emblematici destini di donna gli aspetti più deflagranti della violenza sulle donne, non limitandosi, e qui sta uno dei suoi meriti particolari, alla molto sfruttata disamina della condizione femminile nei paesi islamici, ma da questa prendendo le mosse per slargarsi ad un discorso socioeconomico che coinvolge la condizione umana della donna, a qualunque latitudine essa viva. Infatti, la storia di Hanifa, un'adolescente che si brucia per sfigurarsi e non dover sposare un ricco vecchio a cui la sua poverissima famiglia vuole di fatto venderla, è sì islamica, ma lo stesso meccanismo è alla base delle tante slave, africane, ucraine, che finiscono a battere i marciapiedi delle metropoli: la causa prima è sempre la miseria, che offusca la dignità umana, ottunde gli affetti, cancella l'amor proprio. Quanto a Rose, l'operaia keniota che muore di tumore per aver respirato le sostanze chimiche presenti in una serra di rose sul lago Neivash, trova senz'altro il suo omologo europeo, maschile e femminile, nelle morti per amianto o in quelle della Thyssen. Infine Neda, la studentessa iraniana uccisa durante una manifestazione a Teheran, è un esempio al femminile di tanti e tanti uomini e donne caduti per mano di regimi feroci, in Cina, in Messico, in Russia.

Un lavoro dunque che evita i facili razzismi all'incontrario, senza buonismi né sdolcinatezze che ne svuoterebbero la profonda e dirompente carica ideologica: secco e duro il linguaggio, amplificato dalla regia di Norma Martelli, scarna ma pregnante, ostensiva sempre, dove i bidoni di alluminio gettano lampi metallici sulla scena disadorna, all'interno della quale anche le rose sembrano spazzatura e non più fiori. Ottima dunque la scelta di Camilla Grappelli e Francesco Pellicano di presentare tutta la scena sin dall'inizio, con i suoi oggetti quotidiani la cui reale funzione si comprende pian piano, col procedere dei monologhi; ed ecco i bidoni divenire lo strumento di Hanifa per darsi fuoco, i secchi alludere simbolicamente al lago, l'impalcatura di legno coprirsi di plastica per descrivere la serra-tomba delle operaie, i veli additare la sudditanza della donna islamica, in un climax incalzante ben coadiuvato dagli effetti sonici di David Barittoni.

Quanto a Claudia Campagnola, giovane attrice che ha retto senza cedimenti tutta la pièce, ha mostrato grande professionalità, impostando la sua recitazione su una compartecipazione alle vicende femminili scevra da sentimentalismi, con un'accurata scelta dei tempi, un acuto dosaggio delle pause che rivelava una profonda intelligenza del testo. Ottimo il controllo della voce e soprattutto egregia la dizione, che ha permesso agli spettatori di non perdere nemmeno una sillaba di un lavoro così significativo.

Giuliana Cutore

28/11/2014

Le foto del servizio sono di Valerio Fuccini.