Quattro salti nell'Olimpo dell'alta moda
È talmente tanto brutto, volgare e pacchiano che difficilmente potrebbe passare inosservato. Al posto del consueto velario scarlatto, infatti, quel raffinato, esclusivo scrigno che è l'Opéra-Comique di Parigi si scontra a muso duro con un rideau de scène di sparluccicanti lamine argentate: un vero, autentico orrore.
La ragione di questa scelta quanto meno azzardata sta proprio nel titolo rappresentato, Platée di Jean-Philippe Rameau, e nelle intenzioni dell'équipe che ne assicura la messinscena, Robert Carsen per la regia e le luci e Gideon Davey per scene e costumi, su un'idea drammaturgica di Ian Burton. Programmata per celebrare il 250° anniversario della morte del compositore digionese (battezzato il 25 settembre 1683 e sepolto nella monumentale cornice di Saint-Eustache, la chiesa dei musicisti della capitale francese), la comédie lyrique non soltanto rappresenta un unicum nel catalogo del musicista: oggi ne è diventato, a buon diritto, il titolo più famoso, la chiave di volta destinata a compendiare un'attività indirizzata su più fronti. Prima ancora di dedicarsi al teatro musicale, e segnatamente alla tragédie lyrique, di cui è incontestato codificatore, Rameau è infatti brillante organista e cembalista, eminente teorico musicale, brillante e arguto homme savant del secolo dei Lumi, autore di quel Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturels fondato su rigorosi criteri scientifici. Certo il tardivo arrivo a Parigi, nel 1731, gli squaderna tutto un mondo ben lontano dagli approfonditi studi giovanili: dapprima quando diventa compositore del cassiere generale, Alexandre Le Riche de La Pouplinière, quindi quando un libretto dell'abate Pellegrin, famiglio del facoltoso finanziere, gli schiude le porte dell'Opéra, dove nel 1733 trionfa Hippolyte et Aricie, cavato da Euripide per il tramite di Racine. Poi sarebbero venuti, con cadenza regolare, Les Indes galantes (1735), Castor et Pollux (1737) e Dardanus (1739), fino alle Boréades, rappresentata postuma: tutti successi consolidati dalla redazione di una trentina di trattati e pamphlets di natura teorica, tra cui la fondamentale Démonstration du principe de l'harmonie (1750), redatti quando sta per divampare la Querelle des Bouffons.
Incastonata nel bel mezzo di un'attività tanto frenetica, Platée ha la forza dirompente dello sberleffo, il guizzo arguto e beffardo di chi, prossimo a conquistare il rango di compositore di corte alla venerabile età di 62 anni, si permette di irridere l'universo che lo circonda. Alla corte di Luigi XV, l'opera figura infatti tra gli spettacoli allestiti al castello di Versailles in occasione delle fauste nozze del Delfino con l'Infanta di Spagna, circostanza per la quale il compositore scrive anche una comédie-ballet di carattere più solenne, La Princesse de Navarre. Certo anche qui si parla di nozze e di fedeltà coniugale, ma l'episodio mitologico in questione, tratto dalla Descrizione della Grecia di Pausania, pare tutt'altro che encomiastico. Si narra infatti di come Zeus, onde placare la gelosia della furente consorte, finga d'innamorarsi di una naiade, Platea, ninfa di rara bruttezza ma anche di cieca vanità: fino a voler celebrare nuove nozze, per farsi cogliere in flagrante dalla moglie, pronta a perdonare la finta unione con una rivale tanto improbabile quanto credula. Certo altre fonti letterarie si fondono nel raffinatissimo, esilarante libretto di Adrien-Joseph Le Valois d'Orville, a cominciare dalla fangosa ambientazione – memore di Aristofane – nel «marais superbe», la palude superba ove «sudditi innumeri errano tra le erbe», batraci pronti a gracidare il loro stupore per l'improvvisa epifania della divinità ai piedi della ninfa.
E qui scatta, per Rameau, l'applicazione di teorie che gli permettono di esplorare il registro della parodia, quando il coro imita il verso e le movenze delle rane, abitatrici dello stagno che si distende ai piedi del Citerone, o quando la divinità – celebre per la sua arte di dissimularsi sotto mentite spoglie – si presenta agli occhi dell'amata dapprima sotto l'aspetto di nuvole, destinate a sciogliersi innaffiando la promessa sposa, quindi come asino che scalpita e raglia, e infine come enigmatico gufo dalle ali ramate. Un gusto della metamorfosi destinato a dimostrare le infinite potenzialità del linguaggio musicale, capace di affermare il contrario del testo letterario quando non intende piegarsi a finalità espressive: così accade alla Follia, giunta ad animare la festa di nozze, che propone dapprima un'arietta in stile italiano, sfavillante di pirotecniche evoluzioni melismatiche, per descrivere i languori d'Apollo rifiutato da Dafne, quindi «rattrista l'allegria stessa» con un lamento dedicato agli amori pastorali di Zefiro e Flora.
È, insomma, il trionfo delle apparenze e del disinganno, che Carsen non esita ad allontanare dal passato mitologico per immaginare «un spectacle nouveau», lo spettacolo nuovo che auspicano, nel prologo “in cielo”, Tespi e il suo desiderio di ridere, Talia in difesa della follia, Momus, pronto ad estendere la satira dagli umani agli dei, e infine Amore, ingrediente indispensabile di ogni rappresentazione teatrale. Per questo l'azione viene trasportata nel mondo sfavillante dell'haute couture internazionale, nell'Olimpo dell'alta moda dove trionfano la vanità e la disillusione. Il gioco di specchi, che circondano la scena su tre lati, è semplicemente perfetto. Così, nel primo atto Platée è verde per la maschera di bellezza che le imbratta il viso, e a mollo per via della manicure e pedicure che è intenta a fare… Ma è la descrizione del mondo fashion a divertire il pubblico: con tanto di Jupiter vestito da Karl Lagerfeld e l'inarrivabile Junon in elegantissimo tailleur Coco Chanel, mentre all'improbabile festa di nozze partecipa anche Anna Wintour, redattrice capo di Vogue! L'immancabile sfilata, poi, segue i travestimenti del promesso sposo e presenta una serie di modelli vestiti con i colori del cielo, quindi in un look sadomaso per autentici stalloni, per finire con delle ardite variazioni sul tema dell'uccello piumato. Il gran finale è assicurato dal sontuoso abito da sposa che indosserà Platée, con un interminabile strascico bianco che divide in due il palcoscenico, autentico, magistrale coup de théâtre. Tutto intorno è il trionfo di tacchi a spillo e mises azzardate, in un continuo trillare di cellulari, unico mezzo di nevrotica comunicazione tra alta moda e alta finanza; fino all'atmosfera disco della festa di nozze, in cui la Follia si scatena ora come una Lady Gaga leopardata, ora come Madonna in abiti del Settecento. Non poco contribuiscono alla riuscita generale le brillanti coreografie di Nicolas Paul, non più sapido divertissement ma ideale prolungamento dell'azione, perfettamente integrate nella concezione musicale dello spettacolo.
Perché di questo conta dire, infine, per comprendere tutto il valore di uno spettacolo memorabile. La nuova produzione nasce infatti da un'idea di William Christie, da oltre un quarantennio ineguagliato punto di riferimento nella storia dell'interpretazione della musica barocca francese, forte della collaborazione con Les Arts Florissants, il complesso di coristi e strumentisti fondato nell'ormai lontano 1979 e oggi en résidence a Caen, in Normandia. Con loro Christie ha intrapreso un diuturno lavoro filologico di studio delle fonti, ma soprattutto della riscoperta di uno stile – ritmica, articolazione, fraseggio, abbellimenti, che qui suonano con una naturalezza, una spontaneità, una consapevolezza davvero mirabili e sorprendenti. Purtroppo convalescente, Christie ha lasciato il podio a Paul Agnew, che nel corso dell'ultimo decennio è stato l'interprete di riferimento del ruolo di Platée. Lo abbiamo ritrovato, nel corso di queste recite all'Opéra-Comique, perfettamente a proprio agio con il discorso musicale ramista, con un senso del teatro semplicemente sensazionale. Guida da par suo una distribuzione praticamente perfetta, in cui trionfa Marcel Beekman, che sottrae il ruolo di Platée all'originaria tessitura di haute-contre e costruisce un'immagine fatta di languore e illusione, sorrisi di circostanza e disperazione sotto pelle. Gli è accanto una irrefrenabile Simone Kermes, che sfrutta alcune mende vocali – soprattutto per quel che riguarda l'intonazione – per costruire una Follia sopra le righe, scanzonata e imprevedibile, una, nessuna e centomila. E gli elogi non possono che includere il Mercure ammiccante e severo di Cyril Auvity, la gravità snob di Edwin Crossley-Mercer (Jupiter) e la grazia del purissimo belcanto di Emmanuelle de Negri, nel doppio ruolo di Clarine, confidente della ninfa, e di Amour. Ritrovarla nel finale, quando divinità e mestatori dell'alta moda hanno abbandonato Platée alla sua solitudine, è un momento di alta, commovente pietas: perché non scocca una freccia dal suo arco, ma semplicemente la porge alla ninfa, che preferisce trafiggersi, ormai paga d'inganni d'amore e di sulfurei tradimenti.
Giuseppe Montemagno
5/4/2014
Le foto del servizio sono di Monika Rittershaus.
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