RECENSIONI
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Nicola De Giosa

o dell'artigianato musicale

 

Se è vero che il teatro d'opera del Novecento s'informa non a una reale condivisione degli antichi codici melodrammatici, ma alla loro mimesi e parodia, Don Checco del barese Nicola De Giosa presenta tutti i crismi di un'opera buffa del ventesimo secolo. E poco importa se, in realtà, è stata tenuta a battesimo nel 1850.

Don Checco vede dunque la luce nello stesso anno del nostro ultimo illustre melodramma comico, Crispino e la comare: ma se Federico Ricci realizzò un'opera eminentemente veneziana, De Giosa e il librettista Almerindo Spadetta concepiscono una drammaturgia tutta partenopea. Siamo insomma tra quelle propaggini tardo ottocentesche che tentarono di aggiornare la grande stagione dell'opera buffa napoletana del Settecento (di lì a qualche anno arriderà effimera fortuna a I due ciabattini di Francesco Ruggi, cara a un baritono come Giuseppe De Luca): non sempre ci riuscirono, ma sta di fatto che in questi ultimi anni si è assistito a una piccola “Don Checco renaissance”. L'opera si è ascoltata a Napoli, Bari, Martina Franca; e a Napoli, appunto, ora ritorna, per la stagione del San Carlo ma in scena nel meno aristocratico, e tuttavia godibilissimo, contesto del Teatro Politeama.

È difficile prevedere se questa partitura-assemblaggio – il primo atto è un profluvio di omaggi al nostro melodramma protoromantico, Donizetti e Bellini in primis, shakerati all'interno d'un canovaccio comico, mentre nella seconda parte l'autore non rinuncia unghiate più personali – rientrerà davvero in repertorio, dato che i suoi pregi (una capacità di restituire sorridendo antichi moduli scenico-vocali) oggi hanno scarsa ragion d'essere (quegli stessi ingredienti sono tornati di prima mano, i teatri odierni programmano più volentieri i titoli del primo piuttosto che del secondo Ottocento). Ciò che resta indubbio è il talento, umile ma estroso, di De Giosa: la sua elementarità armonica compensata da una generosa vis ritmico-melodica; il gusto per l'antica commedia di caratteri innervata con spruzzate surreali (tra gli altri titoli del compositore barese figurano L'arrivo del signor zio e Un geloso e la sua vedova); l'umana empatia – in questo la lezione del suo maestro Donizetti è ben percepibile – verso ogni personaggio.

La regia di Lorenzo Amato opta per un'ambientazione anni Quaranta del secolo scorso. Con il determinante contributo di Nicola Rubertelli e Giusi Giustino (il primo realizza una scena fissa – tutto si svolge all'interno di un'osteria – di squisita stilizzazione, la seconda firma costumi “poveri”, ma accuratissimi) il regista ci trasporta in una Napoli postbellica, ormai pacificata ma con tutti gli stenti di quei giorni: cosa che per un'opera come Don Checco, il cui tema principale è la fame, appare una scelta impeccabile. E, sia merito del regista o del talento innato degli interpreti, ogni cantante recita da attore provetto, affrontando i numerosissimi innesti in prosa (siamo nei paraggi d'un vero e proprio Singspiel alla napoletana) con scatenata scioltezza.

Il protagonista Domenico Colaianni sfrutta le proprie caratteristiche e i propri limiti – fisicità camaleontica, risonanza ragguardevole, timbro arido – per plasmare un personaggio surreale anziché naturalistico, al servizio d'un “cantar parlando” a mezza strada tra la vecchia scuola e il postmoderno. Più corposo e sanguigno – come si conviene al ruolo dell'oste Bartolaccio – l'altro baritono, Carmine Monaco, che peraltro gli scorsi anni ha affrontato (e bene, gli ascolti su YouTube stanno a dimostrarlo) pure il ruolo di Don Checco. Lo scontro fra i due buffi (un topos che parte almeno dal Matrimonio segreto, si sviluppa con Rossini e approderà, ben oltre De Giosa, alle schermaglie tra Falstaff e Ford) è il momento più esilarante dell'opera: Colaianni e Monaco, con le loro opposte caratteristiche ma entrambi latori di un'arte sapiente e antica, lo servono alla perfezione.

A far loro da contraltare è la coppia “amorosa”, con una Barbara Bargnesi forse un po' asprigna, ma scaltra e piccante al punto giusto (oltre che ferrata nei tour de force parodistico-virtuosistici) e un Giovanni Sala tenore di mezzo carattere, sì, ma tutt'altro che “tenorino”. Più opaco Rocco Cavalluzzi, in una parte di deus ex machina che De Giosa non riesce a motivare fino in fondo e il regista tenta di risolvere con un affondo gay abbastanza incongruo. Tutti sono comunque ben sostenuti da Carmine Pinto: bacchetta al servizio delle voci, com'è logico in una partitura come questa, anche se le sonorità appaiono talvolta impastate e nebulose (ma l'acustica del Politeama non è quella del San Carlo…). Vero coprotagonista invece il coro, istruito da Gea Garatti Ansini, che in Don Checco è un autentico personaggio collettivo: e anche questo, probabilmente, rappresenta per l'autore una citazione e un omaggio donizettiani.

Paolo Patrizi

24/11/2018

Le foto del servizio sono di Francesco Squeglia.