Fiaba politica e ancestrale
Se nel 1939 il filonazista Carl Orff, con Der Mond, mise in musica i fratelli Grimm guardando al bambino che vive in ogni uomo, una quarantina di anni dopo il comunista eterodosso Hans Werner Henze, volendo travasare nel teatro d'opera un altro classico della tradizione fiabesca come Pollicino, s'interessò soprattutto al transito – niente affatto indolore – dall'età infantile a quella adulta. Ma se in un compositore di regime come Orff il mondo dei “grandi” è tutto sommato rassicurante, con quei suoi personaggi simpaticamente picareschi, in un “musicista contro” quale fu Henze – politicamente scorretto e tutt'altro che allineato con l'establishment musicale del proprio tempo – senso del disagio e cognizione del dolore prevalgono: tra tanti adulti orrendi, il meno mostruoso (appunto perché è un cattivo dichiarato) sembra forse proprio l'Orco. Mentre scoprire che i genitori l'hanno coscientemente abbandonato nel bosco insieme ai fratellini, imprime in Pollicino uno strappo insanabile: una ferita che sarà fonte di crescita improvvisa, ma certo non oggetto di rimarginazione.
Si sa, poi, come andarono le cose. Dal rigoroso obiettivo pedagogico, e dall'altrettanto preciso intento di partecipazione sociale, con cui nel 1980 Henze realizzò questa “favola per musica” – concepita per i piccoli cantanti e i giovani strumentisti di Montepulciano e del suo Cantiere – scaturì un classico: il quale (al pari di tutti i classici) travalicò il particolare luogo per il quale era nato e, proprio come Pollicino, prese a camminare con le sue gambe, senza più bisogno di sassolini e molliche di pane a far da bussola, diventando grande. E ora che Pollicino torna a Montepulciano (ma già negli anni Novanta ce n'era stata un'altra edizione intermedia) lo spirito è quello della messinscena di un'opera di repertorio, sia pure con la particolarità di una locandina composta perlopiù da bambini: non di un private joke o di un laboratorio domestico.
Di questo si è debitori soprattutto alla regia di Marina Bianchi. Consapevole della distanza che separa quegli anni ideologici in cui Pollicino fu concepito da questi nostri tempi largamente “post-ideologici”, e con una sensibilità femminile che inevitabilmente sfuggiva al compositore, la regista punta sulla dimensione archetipica della fiaba: polemica sociale e denuncia politica (perché nell'opera pure gli snaturati genitori del piccolo protagonista sono vittime di un “sistema”) restano in sottordine, mentre il groviglio di paure ancestrali, ambiguità di ruoli (quelle sei orchessine sono le figlie dell'Orco o è un caso di pedofila?), iniziazione anche sessuale (un aspetto della favola che a Henze forse interessava meno) viene districato con notevole sapienza teatrale. Ne scaturisce uno spettacolo simbolico ma di forte evidenza materica, nella miglior tradizione del teatro povero (gli elementi scenici di Leila Fteita offrono un contributo prezioso in tal senso), dove la metafora della fiaba convive con il segno più realistico del romanzo di formazione: eccesso e carenza di cibo, bulimia feroce e fame incattivita (come dire casa dell'Orco versus casa di Pollicino) danno vita a un teatrino di speculari crudeltà e, alla fine, l'unico punto fermo è l'inutilità degli adulti, qui riassunti da poche mute e ininfluenti coppie di signore e signori in pigiamino bianco.
La locandina offre un piccolo esercito di bambini entusiasti, attori scatenati ma puntualissimi sul piano scenico e cantanti irreprensibili quanto a precisione ritmica e intonazione: anche se – ovviamente – mattatore è il piccolo Andrea Ciacci, Pollicino debitamente candido eppure già con le ombre delle consapevolezze che verranno. Forse meno inappuntabile (soprattutto in qualche attacco) la bacchetta di Alessio Tiezzi, comunque abbastanza ben servita dagli strumentisti dell'Istituto di musica di Montepulciano, e non sempre convincenti, tra gli altri interpreti, gli adulti maschi (ma affidare l'Orco a un attore-cantante, per quanto talentoso, anziché a un cantante-attore è stato uno sbaglio di prospettiva in questa produzione). Le signore, invece, sanno come tener testa ai frugoletti: Eleonora Contucci dà vita a una mamma snaturata, eppure non incapace di rimorsi, mentre Annamaria Amorosa plasma un'Orchessa ambiguamente materna e dolorosamente farsesca.
Paolo Patrizi
3/8/2016
Le foto del servizio sono di Irene Trancossi
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