Sette e settantasette
Che il sette sia un numero biblico, fatalistico, cabalistico, e chi più ne ha più ne metta, siamo d'accordo. Ma se è questo che ha legato il programma del concerto di venerdì 10 gennaio 2025, si deve assumere che porti bene. Sono stati eseguiti infatti il Concerto per violino e orchestra in re maggiore Op.77 di Johannes Brahms e la Sinfonia nº7 in la maggiore Op.92 di Ludwig van Beethoven. Dove, è presto detto: Torino, auditorium Giovanni Agnelli, nell'ambito della rassegna dei Concerti del Lingotto.
Naturalmente si scherza. Non è solo questo. Il Concerto di Brahms ricalca nei suoi tratti essenziali l'analogo Concerto di Beethoven, del quale è una naturale evoluzione: la tonalità è la stessa, ma quello è il meno; le somiglianze si rinvengono nel grande coinvolgimento dell'orchestra, nelle vaste dimensioni dell'Allegro d'apertura, nell'amabile cantabilità del movimento centrale, nella conclusione scattante e briosa. Peccato che l'Op.61 di Beethoven cadde presto nel dimenticatoio. Il merito di averla riportata in auge spetta a Joseph Joachim, che la eseguì appena dodicenne a Londra sotto la direzione di Mendelssohn. E fu proprio all'amico Joachim che Brahms si ispirò per il “suo” Concerto, scritto nel 1878, a lui dedicato e da lui eseguito in prima assoluta il 1º gennaio 1879 a Lipsia. Che si “ispirò” è dire poco: Joachim contribuì fattivamente alla stesura del Concerto, guidando la mano di Brahms nell'agevolare la scrittura violinistica; la cadenza che si esegue normalmente, poi, è di suo pugno.
L'Op.77 di Brahms rivive al Lingotto sotto le dita di Sergey Khachatryan, coadiuvato dall'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretta da Myung-Whun Chung. Khachatryan non è nuovo sulla piazza torinese: neanche un mese fa è stato ospite Rai con il Concerto per violino del suo quasi omonimo Chacaturjan. E nemmeno Chung lo è. La sua Nona di Mahler, proprio qui al Lingotto, si ricorda ancora dall'ottobre del 2013. Sarà anche per questa relativa familiarità che il concerto ha suscitato ampi consensi di pubblico, oltre che ovviamente per una qualità esecutiva di prim'ordine. Qualità che in questo caso non va disgiunta da una lettura piuttosto personale di Chung, in controtendenza col mainstream, che si estrinseca soprattutto nell'Allegro ma non troppo iniziale. Ed è proprio sul quel ma non troppo che Chung si sofferma, non solo per quanto riguarda la velocità di esecuzione. Ci si accorge fin dalle prime battute che la sua sarà una lettura all'insegna della riflessività. Come in Celibidache, il genio dell'esecuzione rallentata, è lì a dire, non con le parole ma con la musica, “finora l'avete sentito in un modo, stasera lo sentite in un altro”. Sentire, non ascoltare. Ed è come se all'agogica meno vivace si adeguasse una consequenziale distillazione del movimento, una sua suddivisone in capitoli emozionali. Gli inabissamenti in zone dove il discorso musicale sembra spegnersi, quietato su un letto sonoro di impalpabile levità, subito seguiti da involi rapsodici del violino, danno l'idea di una composizione nata di getto, anziché altamente strutturata com'è d'uso per Brahms: quasi un velato omaggio stilistico alle tante ore passate dal giovane “Hannes” in compagnia di Reményi e del suo violino zigano, improvvisativo per antonomasia. Si fa strada, man mano che l'esecuzione procede, l'idea di una direzione più lenta del consueto, sì, ma più profonda: quasi più intima, nonostante le dimensioni piuttosto consistenti dell'orchestra, allargata a “quattordici primi”. La lentezza fa perdere talvolta i riferimenti della forma-sonata, già incrinata dall'estetica tardoromantica brahmsiana, ma ciò rafforza l'idea di una sorta di viaggio iniziatico, alla scoperta di un Brahms che si sembra ascoltare per la prima volta. La drammaticità accesa del Primo Concerto per pianoforte è qui ben distante: Chung ne è consapevole, e raffrena quella un po' più indottrinata dell'Op.77, così come gli scoppi d'entusiasmo che coronano i climax, caratterizzati sempre da un che di trattenuto che fa loro evitare la dirompenza di esecuzioni più “beethoveniane”. Khachatryan si adegua a questa cifra espressiva, ed esegue una cadenza onirica, ben integrata alla conclusione del movimento all'insegna della seriosità.
Date le premesse, l'Adagio è l'ovvia conseguenza dell'Allegro, e scava ancor più nell'intimismo, un segreto confidato all'orecchio, come a voler cullare l'ascoltatore ma senza lasciare nulla al caso, anzi, stabilendo confini netti per gli eccessi di tenerezza. Ed è grazie a questi confini tracciati con precisione che il contrasto con l'Allegro giocoso riesce bene, grazie anche ad un'agogica più vivace, più vicina a quanto normalmente si ascolta. D'altro canto il punto non è il “famolo strano” per partito preso, ma trovare il tocco di originalità pur nella “normalità” stabilita dalla tradizione. L'impostazione rimane seriosa, contribuendo all'immagine del Brahms ultimo baluardo del romantico classico al suo tramonto, ma sarebbe un delitto farlo “pesante”: nella lettura di Chung suona infatti paludato ma leggero, grazie anche a un'orchestra in forma smagliante. E l'aver smorzato un poco le tensioni del primo movimento fa sì che l'ultimo ne venga caricato pur senza eccedere dall'appiombo generale di questa prima parte.
Discorso a sé merita Khachatryan. Fin dall'attacco il suono del suo violino è plastico, materico, particolarmente presente. Come già nel concerto Rai, la straordinaria musicalità contrasta con la sua studiata compostezza, come un Benedetti Michelangeli del violino: ed è questo, tra l'altro, che lo rende così magnetico. Un magnetismo di sostanza, ovviamente, oltre che di apparenza, sostenuto e garantito da una tecnica inappuntabile che rende agevole ed espressivo ogni passaggio. Il suo è un Brahms vibrato, pulsante, ricco di chiaroscuri. Ma come spesso accade, è nei fuori programma che si apprezzano al meglio le qualità del solista. Agli applausi del pubblico, Khachatryan risponde con ben due brani. Il primo è l'Allemande dalla Sonata per violino solo nº4 in mi minore Op.27 di Eugène Ysaÿe , in cui gli influssi bachiani sono patenti e l'intensità dell'interpretazione raggiunge livelli esemplari. Non per nulla l'ultimo suo CD, dedicato proprio alle Sei Sonate Op.27 di Ysaÿe, ha meritato il Preis der deutschen Schallplattenkritik nel 2024. Ancor più particolare il secondo, Havoun Havoun, canto spirituale di Gregorio di Narek, (X secolo), in cui il violino, costantemente tenuto in pianissimo, riesce a evocare sonorità flautate, simili al duduk, il tradizionale aerofono armeno. Khachatryan porta alto il vessillo delle sue origini, e lo si capisce sia dal frequente ricorso a brani popolari armeni per gli encore (come il mese scorso alla Rai), sia nella sconfinata e malinconica poesia che riesce a evocare con queste musiche. Sovviene Sayat-Nova, il trovatore del Caucaso: «Intona il canto come un usignolo, quant'è dolce la sua melodia». Il clima di sospensione dell'auditorium gremito e in completo silenzio, con l'unico suono del suo violino in pianissimo, vale da solo l'intero concerto e si aggiudica la palma per il momento più emozionante della serata. Doveva giusto squillare un cellulare…
Al ritorno dall'intervallo, Chung è accolto con un'ovazione che l'orchestra improvvisamente zittisce con l'attacco della Settima : quell'accordo di la maggiore a piena orchestra che dà il via al Poco sostenuto dove il discorso si dipana lungo l'introduzione lenta più lunga mai anteposta da Beethoven a una sinfonia. In questo caso la bacchetta di Chung risponde più da presso ai canoni di una Settima tradizionale, anche qui senza appiattirla in un'esecuzione priva di mordente. Si riconosce infatti una maestria degna della sua fama nei fraseggi attentamente calcolati, specialmente nell' Allegro con brio conclusivo, dove impercettibili stacchi tra una frase e l'altra traducono sonoramente il segno grafico delle legature d'espressione in un movimento che è tutto un rincorrersi affannoso e che se estremizzato, da un lato o dall'altro, suona o pachidermico o al cardiopalmo; o ancora nella trasparenza nei piani sonori, che soprattutto nell'Allegretto si riescono a distinguere come avendo la partitura davanti agli occhi (del resto, la copia cartacea Chung l'avrà probabilmente lasciata chiusa in camerino, dato che dirige a memoria): un valore aggiunto, che permette di apprezzare la scrittura beethoveniana, ridotta qui, come si sa, a puro impulso ritmico in cui però, miracolosamente, è entrata anche la melodia. È insomma una Settima che dà soddisfazioni, tolto l'unico neo del ritornello dell'esposizione abolito nel movimento finale – tutte le altre ripetizioni sono invece state eseguite comme il faut: soddisfazioni sia a livello espressivo, con tempi condivisibili, mai affrettati come spesso si sente fare soprattutto nello Scherzo, con accelerati e rallentati interpretati con coscienza e intelligenza (primo e ultimo movimento straordinari in questo), un grande respiro sinfonico e un disegno di fondo coerente e unitario, sia a livello esecutivo.
Merito, questo, di un'orchestra di prim'ordine che si fa valere in ogni sezione: se già si apprezzavano gli archi caldi, ambrati, morbidi e uniformi all'inizio del Concerto di Brahms, al cui termine il primo oboe è stato convintamente applaudito quale rappresentante di un'ottima fila di legni, durante la Settima l'apprezzamento si estende a degli ottoni equilibrati e soprattutto consci del loro ruolo all'interno dell'orchestra. Laddove spesso in passato si sono ascoltate trombe apocalittiche che coprivano tutto il resto dell'orchestra o corni sguaiati, qui si ha un perfetto bilanciamento del loro peso acustico: le trombe in particolare spiccano all'akmé dello sviluppo del primo movimento ma senza “bucare” o coprire, e i corni, festosi nell'ultimo, attaccano con precisione e ottima intonazione. L'effrenatezza vitalistica con cui la Settima si chiude poco dopo il loro intervento non poteva che contagiare il pubblico in un lungo applauso da parte di una platea in parte anche in piedi!
Christian Speranza
14/1/2025
Le foto del servizio sono di Mattia Gaido.
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