Doveva andare in scena nella primavera 2020. E sarebbe stato tutto un altro spettacolo. La pandemia non solo ha costretto a rinviare per due stagioni la Turandot “di” Ai Weiwei a Roma (data la risonanza mediatica dell'evento, per una volta l'attribuzione di paternità all'autore della parte visiva non è impropria), ma ha imposto – col senno di poi – un radicale ripensamento della messinscena. Chissà quali immagini, nel progetto originariamente concepito dall'artista concettuale cinese, avrebbero contrappuntato le vicende della Principessa di gelo e del Principe ignoto: sta di fatto che, nell'allestimento così come lo vediamo oggi, coprotagonisti al fianco di Turandot e Calaf sono i filmati della catastrofe sanitaria di Wuhan, i video della rivolta e repressione di Hong Kong, le proiezioni della guerra russo-ucraina. E il fatto che da quest'ultimo paese provengano le due protagoniste della serata, ovvero il direttore Oksana Lyniv (ma nel 2020 era prevista un'altra bacchetta) e il soprano Oksana Dyka, così come ucraino è Andrii Ganchuk nei panni del Mandarino, fa assumere allo spettacolo un'ancor più stringente attualità, speculare d'altronde alle battaglie civili sempre portate avanti da un artista dissidente come Ai Weiwei. Tutto questo riguarda però i presupposti della messinscena o, meglio, il suo retroterra ermeneutico. Poi resta da vedere come si sostanzia tutta l'operazione. La macchina visuale messa in moto da Ai Weiwei non si fonde con la musica di Puccini: preferisce piuttosto giustapporvisi, trovando in tale percorso parallelo la propria fertilità di spunti. Un'ampia scalinata e muri diroccati – eloquenti richiami ai concetti inseparabili di potere e distruzione – circoscrivono il lavoro del Weiwei scenografo, laddove a sollecitare il Weiwei costumista sono soprattutto le suggestioni zoomorfe (il temibile ragno che funge da copricapo di Turandot, la meno decifrabile gigantesca rana che Calaf porta sulle spalle a mo' di zaino); più latitante è proprio il Weiwei regista, pago che i pochi affondi di regia in senso stretto siano di pertinenza dei movimenti mimici di Chiang Ching (bellissimo quel Principe di Persia risolto tutto in chiave coreografica, e il cui fantasma avvolgerà in un sudario il corpo di Liù).
Demiurgico, invece, è il Weiwei videomaker: che, senza preoccuparsi di ogni possibile forzatura, replica nel linguaggio operistico il suo percorso di artista visivo (partire da un'idea e manipolare un materiale per creare un prodotto che quell'idea rappresenti), rimodulando la scarna scatola scenica preesistente con filmati che trasformano lo spettacolo teatrale in un'incessante, gigantesca installazione. Le tragiche immagini d'archivio di cui si diceva all'inizio (oppure quelle relative a migrazioni epocali, speculari al destino esule di Calaf, Liù e Timur) entrano in dialettica con altre realizzate al computer: tunnel di metropolitana e labirintici snodi autostradali diventano le disumanizzate cornici odierne dove «stridon le infinite ciabatte di Pechino»; mentre telecamere di sorveglianza e manette (dorate, però) impazzano sullo schermo all'arrivo dell'Imperatore, qui non più vecchio saggio costretto suo malgrado a un giuramento di sangue, ma declinato come possibile presidente della Repubblica Popolare Cinese di oggi.
Insomma uno spettacolo densissimo: il cui limite (pur nell'inesausta varietà delle immagini) è semmai quello di scoprire in poco tempo le proprie carte, con il rischio, sulla distanza, di avvitarsi un po' su se stesso. Quello che poteva essere l'altro difetto – una segmentazione narrativa, dato che le sollecitazioni visive di Ai Weiwei tendono a procedere per paratassi – invece non è tale, perché, magari preterintenzionalmente, entra in dialettica con i segnali che provengono dal podio. Attenta più all'anatomizzazione del substrato sinfonico che alla cantabilità, anche la Lyniv punta a una lettura analitica piuttosto che sintetica: una concertazione sensibile soprattutto alla componente ritmica e al fronte tagliente, percussivo, “stravinskiano” della partitura (i primi minuti sono assai efficaci al riguardo, grazie pure alla robusta declamazione del Mandarino di Ganchuk); e che entro questi confini si muove molto bene, anche perché tanto l'orchestra quanto il coro dell'Opera di Roma rispondono in pieno alle sue sollecitazioni. Meno convincente la scelta – oggi quasi una moda più che una scelta estetica – di fermare l'opera al momento della morte di Liù, rinunciando all'umile e tutt'altro che disprezzabile completamento di Franco Alfano.
Cast di personalità non debordanti, come spesso è nel destino di spettacoli operistici incentrati sulla parte visiva. La migliore in campo – e non di poco – è la Liù di Francesca Dotto, bellezza moderna al servizio di una voce “antica”, che conosce l'arte dei “filati” soavi e del vibrato suggestivo ma non invasivo. A fronte di così ben dosato lirismo, Oksana Dyka rischia di apparire una protagonista sopra le righe: ma gli eccessi di sottolineatura sono, più che altro, il frutto di una voce sottodimensionata rispetto ai desiderata del personaggio, vocalmente aggredito nella speranza di aggirarne le difficoltà. E ancor più impari al ruolo è il Calaf di Michael Fabiano, insipido nella soave malinconia di Non piangere, Liù non meno che nello slancio eroico di Nessun dorma, anche se un bell'applauso dopo «Vincerò!» oggi non lo si nega più a nessuno. Più affidabile Antonio Di Matteo, ma dare l'ultima battuta a Timur (come avviene chiudendo con la morte di Liù) richiederebbe forse un basso più incisivo.
Analogamente non basta un tenore “solo” corretto (il giovane promettente Rodrigo Ortiz) per la parte dell'Imperatore, quando il personaggio viene così fortemente arricchito di sottintesi dalla messinscena. Resta il trio delle maschere, male assortito: perché non solo è evidente una difficoltà a gestirlo da parte di Ai Weiwei, ma appare chiaro che pure la lettura musicale della Lyniv è abbastanza disinteressata ai momenti di Ping, Pang e Pong. Ed è un peccato, visto che – presi individualmente – Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone sono tre validi artisti.
Paolo Patrizi
3/4/2022
Le foto del servizio sono di Fabrizio Sansoni.
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