RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole

Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole; l'enorme rete di strade sbagliate ben praticabili. Così Ludwig Wittgenstein annotava nei suoi taccuini nel 1931, quando già l'idea di un mondo ben ordinato, fisso, denso di certezze, cadeva sotto i colpi di maglio della filosofia esistenzialistica e del Circolo di Vienna, prima, nell'ambito dei concetti, e della follia hitleriana dopo, nell'ambito della storia, e ben più gravida di conseguenze per gli uomini. E se è vero, come precisava la Scuola di Francoforte, che dopo i ghetti, i pogrom e la devastazione della Seconda guerra mondiale niente potrà essere più come prima, e non avrà più senso parlare e scrivere di bei sentimenti, di amori idilliaci e di miti del buon selvaggio assortiti, è chiaro che da un'opera teatrale che voglia essere e dirsi moderna non si possono pretendere né soluzioni definitive, né finali che ristabiliscano un cosmos, né linguaggi che non urtino la sensibilità dei benpensanti (che magari poi non si urtano affatto quando barconi pieni di esseri umani colano a picco), né a maggior ragione quella accessibilità che permette di uscire dal teatro con le idee chiare, pacificate, e di andare a letto con la coscienza che comunque abbiamo un mondo ordinato e certo della stessa certezza dei teoremi geometrici.

Il crollo dei sistemi filosofici, dove tutto ciò che esiste si inseriva perfettamente, almeno in apparenza, all'interno di una serie di concetti più o meno funzionanti da letto di Procuste, ha trascinato con sé anche il linguaggio, vale a dire quel mezzo col quale ci esprimiamo tutti i giorni, dimostrando di fatto che i termini che usiamo cambiano di senso, e dunque di significato, non solo a partire dal contesto in cui si trovano, ma anche secondo chi li usa. Così, anche parole come bene, amore, verità, non hanno più un significato univoco, e dunque non possiamo né essere sicuri di parlare sempre della stessa cosa mentre comunichiamo (a meno di non punteggiare il discorso di continue precisazioni che abbisognerebbero a loro volta di precisazioni logiche fino a ridursi al balbettio), né soprattutto che l'altro intenda il termine nello stesso modo, e soprattutto sempre alla stessa maniera mentre discorriamo.

In questo sorta di dubbio iperbolico linguistico, dove “Non puoi non voler rinunciare alla menzogna e non puoi dire la verità”, il dialogo è praticamente impossibile. Non solo: se ciò si mischia a quel mascheramento per cui chiunque, nell'ambito della comunicazione reale, tende a mostrarsi sempre meglio, o comunque diverso da ciò che è, ne deriva che l'unico ambito nel quale possa mostrarsi un barlume di realtà è appunto la finzione scenica. Corollario importante, una volta addentratisi in questa slavina mentale, è che la finzione scenica non abbia un finale chiuso, ma lasci dimorare nell'aperto il processo di disvelamento-ri-velamento di una verità possibile, per usare un linguaggio heideggeriano, o si rifugi in quel da capo stigmatizzato nella battuta che chiude Huis clos di Sartre: “E va bene. Continuiamo!”.

In tal senso, Prova di Pascal Rambert, in scena dal 15 al 20 marzo al Verga di Catania, rappresenta il tentativo conseguente e rigoroso, alla luce di queste premesse, di costruire un'opera teatrale che voglia non solo dirsi moderna (nel senso di tentare di rispondere alle domande che il proprio tempo pone), ma soprattutto non passar sopra al problema del linguaggio, problema reso ancor più acerbo dalla blaterazione che oggi sommerge l'uomo contemporaneo, bersagliato di parole (non più casa dell'Essere) dalla mattina alla sera, dietro le quali non c'è più niente, se non finzione e menzogna (nel caso dei politici ciancianti) e ansia parossistica di una comunicazione dietro la quale si annida solo il vuoto assoluto.

Quattro personaggi, in una sala prove, stanno preparando un dramma su Stalin (facile ripescare l'accenno a quel grande sostenitore della verità teatrale che fu Bulgakov), quando da una battuta si innesca in Anna, una delle due attrici, la certezza di una tresca tra Laura e il marito Luca, lo scrittore. Nell'immobilità totale, Anna erompe in un lunghissimo monologo, dove battuta scenica e realtà si accavallano continuamente, senza che nessuno degli altri, e nemmeno Giovanni, il regista, intervengano, se non con gesti, occhiate o battute che riprendono solo parole del monologo della donna.

L'amore, la separazione, la delusione e il ricordo di un tempo di certezze precipitano come una valanga, dopo la quale però non c'è dialogo, né replica. Semplicemente, Anna si accascia, e Laura prende a parlare, proponendo la sua definizione di amore, il suo racconto del ménage tra lei, il marito Giovanni e Luca: per lei, amore significa altro, è forza panica, sesso, emozione carnale, diritto di amare due uomini contemporaneamente, ma anche unico modo di comunicare al di là e prima delle parole, vita insomma. Il tutto con un linguaggio crudo, privo di metafore, ostensivo, che cerca di creare l'imbarazzo nel pubblico e magari ci riesce. Il lavoro prosegue, in questa implosione di sentimenti, con i due monologhi maschili, che propongono ciascuno la propria versione e il proprio significato della vicenda amorosa, in un crescendo di demistificazioni, dove la struttura di questo strano ménage, in cui ciascuno di fatto ama gli altri tre, si interseca continuamente con le battute del dramma, sfondo sul quale stanno forse sia un'impossibile verità, sia la Storia dentro la quale si agitano tante piccole storie.

Quel che più ha colpito, oltre la densità concettuale del lavoro di Rambert, è stata la capacità di mostrare, e attraverso quattro monologhi privi di ormai impossibili dialoghi, la rete di finzione che attraversa il linguaggio, la fondamentale ambiguità di esso, il suo essere trappola, snodo di strade sbagliate prive, sempre per citare Wittgenstein di “cartelli che aiutino a superare i punti pericolosi”.

La regia, dello stesso Rambert, coadiuvata dalle scene di Daniel Jeanneteau e dalle luci di Yves Godin, ha offerto una prova magistrale di compenetrazione tra testo e atto scenico, tra luce fredda e ambiente spoglio: in particolare, l'uso di grandi lampade a neon che impedivano di fatto la penombra nella sala, ha ostensivamente reso il senso della realtà nella finzione, del reciproco compenetrarsi di prova e di parola reale. Infine, l'aver affidato i monologhi a quattro primi attori in assoluto, perfettamente padroni del palcoscenico e dalla dizione egregia, come Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi e Giovanni Franzoni, ha consentito di assistere ad una prova attoriale di altissimo livello, dove ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo concorreva a creare un climax di tensione drammatica che ha permesso anche allo spettatore tradizionale e meno smaliziato di seguire, se non con piacere (ma del resto un'opera moderna non deve piacere nel senso in cui piace una canzonetta sentimentale), almeno con attenzione tesa, e talvolta sconcertata, il lento implodere di una vicenda amorosa esemplare.

Giuliana Cutore

19/3/2016

Le foto del servizio sono di Luca del Pia.