Bentornata Manon Lescaut
al Teatro Lirico di Cagliari
Ognuno ha i propri tempi. A 34 anni, traguardo di poco mancato da Vincenzo Bellini all'epilogo precoce della sfolgorante carriera, Giacomo Puccini (Lucca 1858 – Bruxelles 1924) con Manon Lescaut (Torino, Teatro Regio, 1° febbraio 1893) si trova catapultato da primus inter pares sulla scena lirica. È pur vero che ha già al suo attivo Le Villi (Milano, Teatro Del Verme, 31 maggio 1884) e Edgar (Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 1889), promettenti certo e con cui si è fatto le ossa, ma non ancora tali da farlo emergere dalla mischia. Manon Lescaut invece si esprime già nell'inconfondibile eloquenza del verbo pucciniano e sfoggia sicura la personalità drammaturgica del compositore lucchese, quali si confermeranno in crescendo nella serie di creazioni teatrali del trentennio a venire. Il lungimirante George Bernard Shaw non avrà dubbi: ecco il degno successore di Verdi. Ugualmente a suo agio nei momenti intimi come nelle scene giocose o drammatiche in cui intervengono anche numerosi personaggi con o senza coro, Puccini definisce con agilità di tratto e vigore strumentale il quadro variegato e i caratteri che vi agiscono.
La Manon Lescaut di Puccini segue L'omonima, non trascurabile, di Daniel Auber (Parigi 1856) e la ben più celebre Manon di Jules Massenet (Parigi 1884). A monte si colloca il ballet-pantomime Manon Lescaut del coreografo Jean-Pierre Aumer con musiche di Jacques Halévy su libretto di Eugène Scribe (Parigi 1830). Tutte queste Manon musicali traggono ispirazione dalla modesta fatica letteraria («capolavoro» secondo, bontà sua, Mosco Carner) dell'abate Antoine François Prévost (1697-1763) Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut (1731-1753), dove le peripezie narrate a dire il vero sbiadiscono di fronte a quelle della rocambolesca biografia del pittoresco abate. Se non è facile simpatizzare per i due protagonisti evocati da Prévost, sono riusciti per fortuna a renderceli vitali e palpitanti i vari librettisti di Puccini, compreso lo stesso Giacomo, sui cui versi il nostro Lucchese li ha poi rivestiti in musica di carne, sangue, passione e sofferenza tragica.
Manon Lescaut mancava dalla scena del Lirico cagliaritano dall'Estate 2007. Quasi sottotitolo di questo ritorno, il tormento e l'estasi: è la passione secondo Puccini, suggerito dal quotidiano “L'Unione Sarda”. L'allestimento del regista Aldo Tarabella, proveniente dal Teatro del Giglio di Lucca e condiviso con i teatri di Modena, Ravenna e Pisa, tra gli altri, si basa sulla scenografia di Giuliano Spinelli, che prevede, quasi scena unica con pochi adeguamenti lungo i quattro atti, un imponente frammento di un sontuoso palazzo con statue posizionato di sghimbescio, che riduce man mano la propria mole - come si frantumano inesorabilmente i sogni e le aspirazioni della protagonista e del suo innamorato - fino a mostrare nell'ultimo atto il lato nascosto della costruzione, che si rivela aspra e minacciosa falesia rocciosa incombente sui due amanti ormai allo stremo (coetanei degli imminenti Rodolfo e Mimì ma anche degli intramontabili Giulietta e Romeo). Tarabella sceglie, con audacia plausibile, in carattere con l'ispirazione pucciniana e i costumi variopinti di Rosanna Monti, di ambientare l'atto dell'esordio e gli ultimi due all'epoca del compositore – la fine dell'800 che vede il battesimo di questa sua opera – mentre l'atto secondo apre una sorta di parentesi ai tempi di Prévost. È apprezzabile la fluidità della distribuzione dei movimenti di singoli e figuranti, dal colorito inizio della vicenda presso l'osteria sulla piazza di Amiens, tra studenti, avventori, passanti, scommettitori (compresa quella segaligna suora che disciplina aggrondata il gruppo di irrefrenabili converse), all'elegante quadro settecentesco della lezione di ballo nel salone del vecchio “nababbo” Geronte (che è riuscito ad accalappiare la giovinetta protagonista grazie al luccichio di lusso, agi e gioielli), alla compassionevole scena straziante nel porto di Le Havre prima dell'imbarco delle prostitute, deportate nelle colonie francesi d'oltreoceano. Tra le sventurate anche Manon, incarcerata dopo la fallita fuga coll'innamorato Des Grieux dall'alcova dorata nella dimora del Nababbo. Quest'ultimo nell'aspetto gioviale e condiscendente ha anticipato in parte le sinistre fattezze di Scarpia. Coadiuvano efficacemente le coreografie di Luigia Frattaroli con il quartetto delle madrigaliste (Crisponi, Ortu, Porcu, D'Angelo) e le luci poliedriche di Marco Minghetti. Il puntuale coro, variamente impegnato, è affidato alle cure di Giovanni Andreoli.
Con salda mano alle redini, il direttore Gianluca Marcianò imprime alla valorosa orchestra del Lirico una lettura vibrante, cangiante, trascinante, cui non sfuggono le sottigliezze della scrittura per non dire dell'oreficeria pucciniana, in particolare nel sontuoso intermezzo-cesura tra il secondo e il terzo atto.
Ho preferito ascoltare il secondo cast, dove i punti di forza mi sono sembrati, col Geronte del basso Matteo Peirone, veterano raffinato nel canto e nell'azione, la protagonista Tiziana Caruso, un soprano con tutte le carte in regola, la cui interpretazione ammirevole incarna perspicace, attraverso le sue metamorfosi, una Manon diversa in ciascun atto. E alla fine come non restare avvinti e commossi sentendola veramente Sola… perduta… abbandonata? Si sono distinti, efficaci nei vari secondi ruoli, il tenore Giuseppe Infantino (Edmondo), il basso Alessandro Frabotta (Oste / Comandante di marina), il tenore Mario Secci (Maestro di ballo / Lampionaio), il mezzosoprano Sonia Fortunato (Musico) e il tenore Guerino Pelaccia (Sergente degli Arcieri). Note alquanto negative sono purtroppo venute dagli altri due personaggi principali, il baritono Filippo Polinelli, un Lescaut cinico, amorale, ludopatico e irrefrenabile sulla scena quanto poco incisivo vocalmente, ed il tenore Mikheil Sheshaberidze quale Des Grieux acerbo, approssimativo e tendente a sgolarsi.
Il numeroso pubblico cagliaritano è stato generoso di applausi.
Fulvio Stefano Lo Presti
24/10/2022