RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una farfalla trafitta dalla musica

La necessità che ha ogni teatro lirico di proporre, all'interno della propria stagione, alcuni titoli estremamente popolari, atti ad attirare quella parte del pubblico per il quale la storia dell'opera lirica si esaurisce in poco più di venti titoli, il che lo rende mai pago di ascoltare anno per anno almeno due o tre di tali melodrammi, se da un lato è foriera di incassi occasionali che vanno ben oltre quelli dello zoccolo duro dei fedelissimi abbonati, abbonati sui quali il teatro può sempre contare a meno di cali verticali nella qualità della produzione, dall'altro richiede, proprio per la popolarità di tali opere, disponibili su DVD, su youtube e su altri mezzi di diffusione a prezzi irrisori se non addirittura gratis e con cast di altissimo profilo, uno sforzo a livello di allestimento, di direzione orchestrale e di scelta dei cantanti non indifferente, pena la delusione e la disaffezione sia di un pubblico che da occasionale potrebbe tramutarsi in stabile, sia degli aficionados, condotti irrimediabilmente, e dalla loro stessa competenza, a paragonare mentalmente il prodotto attuale non solo con le registrazioni disponibili in commercio e su web, ma anche con gli omologhi offerti dallo stesso teatro in anni trascorsi.

Fatta questa doverosa premessa di carattere sociologico, semplice ma quasi sempre sottaciuta, soprattutto da certa critica convinta che puntare su più o meno elaborate teorie estetiche in grado di sovvertire l'usuale concezione di un trama melodrammatica possa far perdonare un'orchestrazione carente, voci inadatte o una regia cervellotica, premessa che spiega almeno in parte la crisi senza fine di certi enti lirici e la lenta e inarrestabile risalita di altri, pur all'interno di un generale disastro finanziario, innegabile, a sua volta legato alle sorti economiche tutte della nostra nazione, non si può negare che mettere in scena un titolo come Madama Butterfly non costituisca una sfida, sia per la particolare struttura dell'opera, scenicamente e vocalmente affidata in maniera quasi esclusiva alla protagonista eponima, sia per le sonorità orchestrali intrise di rimandi orientali, sia per la necessità di una regia che, se proprio non riesce a dire qualcosa di nuovo, deve essere almeno in grado di proporre un prodotto aderente al libretto, senza nudità spartane o senza eccessivi orpelli.

La Madama Butterfly andata in scena al Bellini di Catania il 10 maggio, con repliche sino al 17, non è sfuggita a queste secche insidiose, pur se nell'insieme è riuscita a proporre al pubblico, stavolta abbastanza numeroso, un prodotto nel complesso accattivante, almeno nella sua parte visiva. La regia, affidata a Lino Privitera, coadiuvato nelle scene e nei costumi da Alfredo Corno, per le luci da Andrea Iozzia e per i video da Daniel Arena, si muoveva su un solco tradizionale, ricostruendo una tipica casa giapponese a pareti mobili e scorrevoli, dove predominavano tutti i toni dell'ocra e del giallo, seguitati anche sui costumi, sfumando in un fondale grigio sporco nel primo atto, su cui si stagliava un praticabile a gradoni sin troppo squadrati, dal quale entravano il coro o i singoli personaggi, scendendo più o meno lentamente. Alberi stilizzati, dorati per il primo atto, e un lillà, o forse un salice, nero per il secondo e per il terzo, completavano l'impianto scenografico, caratterizzato da una scarnificata attrezzeria, dove gli elementi nipponici si mischiavano giustamente a quelli occidentali, simboleggiando l'impossibile desiderio di integrazione di Butterfly, già adombrato ad apertura di sipario dalla protagonista che si allontana dalle sue tradizioni, simboleggiate da sei danzatori, incarnazione degli antenati, ma forse anche del conformismo che non risparmia nessuna società, per abbracciare la fede cristiana. Questi sei danzatori, abbigliati in nero, con ideogrammi dipinti sulla schiena nuda, talvolta oscillanti su grandi e malagevoli rialzi attaccati ai piedi, se hanno costituito una valida soluzione registica per evidenziare lo stacco tra Butterfly geisha e Butterfly moglie che si rivendica più volte orgogliosamente americana, e che porta al collo una croce anche nel momento del suicidio, sarebbero però, almeno a parere di chi scrive, dovuti scomparire per mai più ripresentarsi dopo l'irruzione in scena dello zio bonzo, che rinnega la giovane appunto per aver abbracciato la fede cristiana, condannandola così al ruolo di rinnegata, termine che, forte dell'amore di Pinkerton, unirà a quello di felice. Dunque, Cio-cio-san, vittima predestinata di un'impossibile integrazione, non vuole più aver nulla a che fare con le usanze del Giappone: lo ribadirà più volte, dicendo che gli dei giapponesi sono “obesi e pigri”, e soprattutto connotando in senso assolutamente non rituale, ma soltanto esistenziale il proprio suicidio: come dice in “Tu, tu, piccolo iddio”, rivolgendosi al figlio, “... muor Butterfly perché tu possa andar di là dal mare senza che ti rimorda, ai dì maturi, il materno abbandono”, dove il materno abbandono è la traduzione poetica di “aver abbandonato la madre”.

Dunque, di un suicidio d'amore si tratta, non di un suicidio rituale: un suicidio paragonabile a quello di Norma, prima meditato e poi attuato per interposta persona autodenunciandosi, alla quale l'accomuna lo stesso pensiero materno, e che nulla ha a che vedere con la religione o con l'onore. Del resto, non va dimenticato che Butterfly, a differenza della Madame Chrysanthème di Pierre Loti, che finito il periodo di matrimonio conta tranquillamente i soldi che le ha lasciato lo sposo a termine e se ne torna senza problemi al suo mondo originario, nel passaggio dal dramma di Belasco sino alla finale rielaborazione di Giacosa e Illica, subisce una modificazione radicale, dove il suo voler diventare americana, il suo sogno di integrazione, diviene il cardine della tragedia che la attende. Alla luce del libretto, e di un libretto scritto da due letterati ben differenti dal famigerato Tottola, e dunque ben addestrati e motivati ideologicamente a pesare e a scegliere le parole e i termini chiave, appare abbastanza incongruente la scelta di Privitera di riproporre più e più volte i sei danzatori, dal momento che la loro funzione scenica, o meglio simbolico-ostensiva, e proprio in base alle premesse del regista, sarebbe dovuta terminare con l'anatema dello zio bonzo.

Sul fronte strettamente musicale, non si può purtroppo far altro che registrare che la direzione di Gianna Fratta, da noi già ascoltata in occasione de Il Trovatore andato in scena al Bellini di Catania nel marzo 2016, non sembra particolarmente adatta alla dimensione dell'opera lirica: tralasciando le manchevolezze già notate all'epoca, in buona sostanza una scelta dei tempi quanto mai stringata e soprattutto troppo fedele alla precisione metronomica, entrambe responsabili di un continuo incalzare sui cantanti, col risultato non di accompagnarli, adeguandosi così non solo alla dinamica musicale ma anche al respiro della voce umana, ma di costiparli al punto da render loro necessario di saltare segmenti di versi o di precipitare sulle parole con effetti immaginabili sulla dizione e sulla resa generale delle arie. In particolare, in questa Butterfly il direttore ha optato per sonorità orchestrali francamente eccessive, quando non roboanti ed eroiche, non solo poco adatte al delicato tessuto fonico di Butterfly, ma poco consone in linea di principio al delicato equilibrio tra buca e palcoscenico che chi dirige un'opera lirica dovrebbe tenere sempre ben presente. Buona invece la prova del coro, diretto da Luigi Petrozziello, che ha punteggiato con vivacità la scena del matrimonio al primo atto e il successivo anatema dello zio bonzo, riservando invece un'estrema dolcezza e soavità al celeberrimo coro a bocca chiusa, senz'altro il momento più intensamente lirico della partitura, dinanzi alla cui bellezza si è ‘placata anche l'irruenza fonica della Fratta.

Quanto alla protagonista, Daria Masiero, la sua non è stata certo una Butterfly di riferimento, pur all'interno di una discreta resa del personaggio: dotata di una zona medio-grave purtroppo debole, zona che in questa tessitura pucciniana ha un posto di rilievo, se ha cantato con un certo pathos “Un bel dì vedremo”, nondimeno con sforzo nella zona acuta, risultata sovente aspra e a tratti ancipite nell'intonazione, in “Tu, tu piccolo iddio” i gravi sono risultati opachi e poco incisivi, a tutto discapito della drammaticità del finale. Un momento felice il soprano ha invece trovato nel duetto d'amore del primo atto, dove la trascinante vocalità del Pinkerton di Raffaele Abete, tenore dal timbro robusto, dalla sicura intonazione e ben coperto negli acuti, sempre morbidi e pieni, ha permesso alla Masiero di esprimere momenti di dolcezza e verginale ingenuità ben in linea con la giovane Butterfly.

Lo Sharpless di Enrico Marrucci si è distinto per la signorilità e la partecipazione umana impressa al personaggio, pur se sarebbe stata preferibile una maggiore sicurezza vocale nella zona acuta. Bravissima invece Ilaria Ribezzi nel ruolo di Suzuki, la fedele serva, alla quale il mezzosoprano ha donato un fraseggio quanto mai espressivo e una gestualità icastica e pregnante, uniti a una notevole morbidezza di timbro e a una eccellente dizione, tutte qualità che ne hanno senz'altro fatto uno dei migliori interpreti del cast.

In ruolo Gianluca Failla (Yamadori) e Francesco Palmieri (lo zio bonzo), mentre il Goro di Enrico Zara, pur se accurato gestualmente, evidenziava alcune incertezze nell'intonazione. Bene infine Sabrina Messina (Kate Pinkerton), precisa sia nell'emissione che nell'intonazione.

Giuliana Cutore

11/5/2019

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.