RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Tosca

stravince al Regio

Messa a punto dal sovrintendente William Graziosi e dal direttore artistico Alessandro Galoppini, dimessisi nella primavera del 2018, ed ereditata da Sebastian Schwarz, che attualmente ricopre entrambe le cariche, la stagione lirica 2019/2020 del Teatro Regio di Torino prevede una doppia inaugurazione: ad un titolo di più rara circolazione come Les pêcheurs de perles di Georges Bizet, sotto la direzione di Ryan McAdams e la regia onirica e fiabesca della coppia Lubek-Roussat, si affianca un evergreen italiano come Tosca di Giacomo Puccini.

Parlando della sua quinta creazione teatrale, che debuttò al Teatro Costanzi di Roma il 14 gennaio 1900, il compositore lucchese ebbe a scrivere: «Tosca è un'opera che richiede una donna ultra drammatica e un buonissimo baritono, è a tinte forti, e, volendo, a grande spettacolo». Al Regio sembrano averlo preso in parola. La scelta cade sulla sontuosa regia di Mario Pontiggia, allestimento del Teatro Massimo di Palermo, che restituisce tutto il fascino della Roma del 1800, grazie alle scene e ai costumi di Francesco Zito e a ricostruzioni realistiche dei luoghi dell'opera. Si assiste così nel primo atto a una chiesa di Sant'Andrea della Valle con vista dalla navata centrale, con in fondo l'altare, sei candelabri, la grande cupola affrescata in scorcio prospettico al di sopra, il palco e la tela di Cavaradossi a destra, la statua della Madonna e la cappella degli Attavanti a sinistra, tutto comme il faut. Tosca entra in scena con un abito verde smeraldo, da diva dello spettacolo qual è. Il secondo atto è una sfarzosissima sala di Palazzo Farnese, con tanto di statua in restauro, candelabri (macabri ceri funebri ai lati della testa di Scarpia, a fine secondo atto, nel pieno rispetto delle indicazioni librettistiche), chaise-longue al centro e un tavolino da pranzo a sinistra: probabilmente lo studio di Scarpia, a giudicare dalla scrivania ingombra di carte. Uno Scarpia in abito rosso (rosso Regio, verrebbe da dire) in contrasto col torturatore che, con un tocco di esotismo fuori luogo, è nero. Cioè di etnia africana. Prevedibilmente, col terzo atto ci spostiamo su una terrazza di Castel Sant'Angelo, dove, contro un alto parapetto, giganteggia lo stemma papale, sopra il quale convergono due rampe di scale, si può immaginare perché. Ben caratterizzati i personaggi dai movimenti registici, naturali, non affettati, e con un sapiente uso dello spazio del palcoscenico.

Se il côté registico è promosso a pieni voti, diversa sorte tocca a quello vocale. Oltre che per il «grande spettacolo», Puccini sembra essere stato preso in parola anche riguardo alla scelta del soprano. Riferendosi alla recita di domenica 27/10/2019 (duecentotrentasettesimo compleanno di Paganini), Anna Pirozzi dà vita a una Tosca sanguigna e appassionata, calata con la dovuta drammaticità nel ruolo, che interpreta con voce piena, rotonda, ma che sa anche riservare oasi di dolcezza accorata, come nell'applauditissima Vissi d'arte.

Non altrettanto può dirsi del contraltare maschile. Il Cavaradossi di Marcelo Álvarez non brilla al meglio in questa recita, nonostante conquisti il pubblico con un corretto E lucevan le stelle. Il controllo della voce è ottimale, e non indulge in facili gigioneggiamenti, nella tentazione dei quali è caduto altre volte. Ora, si sa che il disperato richiamo alla vita e all'amore del terzo atto è il momento da sempre più atteso di tutta l'opera e il banco di prova di innumerevoli tenori: ma, a ben vedere, si tratta di un brano che richiede un impegno modesto da parte del tenore, che, avvalendosi di una musica obiettivamente trascinante, riesce quasi sempre a strappare l'applauso. È il Vittoria al second'atto lo scoglio maggiore, non tanto per l'estensione (la nota più acuta è solo mezzo tono più alta della più alta nota dell'E lucevan: un la diesis), quanto per la carica emotiva di cui il brano, e poi la tirata eroica che segue, L'alba vindice appar, deve essere investito per poter rendere sulla scena. E qui la voce brevemente cede a un Álvarez che negli ultimi tempi ha visto scurire il suo timbro e trovarsi più a suo agio nel registro medio-grave, rispetto a quello acuto. Riesce comunque, anche se con fatica, a risollevarsi nel prosieguo e a cavalcare la partitura, ma si percepisce una certa stanchezza. Fondamentalmente, la mancanza di squillo, e una certa mancanza di sfumature (l'interpretazione di Miguel Fleta alla Scala nel 1922 resta insuperata, anche se fin quasi eccessiva, e tutto sommato un esempio cui ispirarsi per dar vita a un personaggio a tutto tondo), rendono il suo Cavaradossi non fra i più convincenti.

La mancanza di squillo lo accomuna a Gevorg Hakobyan, nel ruolo di Scarpia. Pur non esibendo un gran volume vocale, né permettendo alla voce di correre lungo la sala, interpreta con convinzione il suo personaggio, riuscendo nell'intento di risultare credibile, cosa non così scontata. Buona prestazione, grazie anche a uno strumento duttile e non roco, seppure un po' ingolato.

Roberto Abbondanza si conferma un Sagrestano di buone doti canore, purtroppo reso caricaturale da una regia che gli impone di fare il filo alla bottiglia di vino del paniere di Cavaradossi e di sottrarre alla fine un salame. Un po' burbero, dato il calcio che appioppa nelle terga d'un chierichetto (venendone ripagato della stessa moneta: un piccolo momento di ilarità in un'opera a tinte fosche), pavoroso del potere al cospetto di Scarpia, il Sagrestano non gode mai di simpatia. Romano Dal Zovo porta in scena un Cesare Angelotti emaciato e barcollante, dal timbro scuro e cavernoso, cui offre un valido profilo sia canoro, sia attoriale. Querulo e non ben a fuoco lo Spoletta di Bruno Lazzeretti.

Il cast è completato da Gabriel Alexander Wernick (Sciarrone), Enrico Bava (Un carceriere) e Viola Contarese (Un pastorello), quest'ultima fuori scena come prevede il libretto e non, come sempre si vede, «ridicolosamente» (Prokof'ev) sugli spalti di Palazzo Farnese.

Il Coro del Teatro Regio di Torino, istruito da Andrea Secchi, e i due cori di voci bianche, del Regio e del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, istruiti da Claudio Fenoglio, prendono parte al grandioso Te Deum del primo atto con ottima prestazione.

Daniel Oren (sostituito nelle prime recite dal giovane maestro Lorenzo Passerini a causa di un'indisposizione) guida l'Orchestra del Teatro Regio in un'esecuzione che spesso sovrasta le voci, già di loro, come detto, non propriamente stentoree. A parte ciò, si può a buon diritto parlare di una direzione di tutto rispetto, conscia del peso della partitura, precisa, puntuale e, soprattutto, non eccessivamente enfatica.

Gran successo di pubblico e sala quasi del tutto piena.

Christian Speranza

4/11/2019
Le foto del servizio sono di Edoardo Piva.