RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Sinfonico: anzi, teatrale

Toscanini amava ripetere che un capolavoro è sempre più grande della somma dei suoi particolari. Come a dire: la visione d'insieme viene prima dei grandi affondi analitici, le squisitezze formali non devono inficiare la plasticità di resa complessiva. D'altronde qual è il marchio di fabbrica d'ogni direzione toscaniniana? Un prevalere della dimensione narrativa su quella speculativa (e questo – attenzione – non solo nel repertorio operistico, cosa forse ovvia, ma pure in quello sinfonico), un piglio molto secco nel descrivere le atmosfere, un'asciuttezza agogica ai limiti del semplificante e, tuttavia, d'inoppugnabile coerenza nella sua articolazione interna. Sollecitare grandi emozioni con pochi tratti rapidi, pennellando alla svelta sulle psicologie, non è stato un talento diffuso nelle arti del ventesimo secolo: in questo, le interpretazioni di Toscanini possono ben figurare accanto alla narrativa di Hemingway, o al cinema di John Ford.

La nascita, in quella Parma che gli diede i natali, di un festival dedicato ad Arturo Toscanini torna quindi utile anche a capire quanto oggi, in anni musicalmente inclini più al virtuosismo fine a se stesso che all'estetica (e all'etica) di un'espressività disadorna, sia rimasto della sua lezione. Forse il più interessante tra i direttori internazionali della generazione dei trenta-quarantenni, Omer Meir Wellber non ha l'inesorabile rigore ritmico toscaniniano: condivide però con lui un dominio dei tempi rapidi tanto impeccabile quanto privo di compiacimenti, il rispetto assoluto per il dettato dell'autore scevro però da qualsivoglia pruderie filologica, il gusto per una lettura “cantabile” delle pagine sinfoniche e “strumentale” delle pagine operistiche. In questa prospettiva la scelta d'inaugurare con Le Willis, versione primigenia di quelle Villi che segnarono l'esordio teatrale di Puccini, è davvero eloquente: priva delle due romanze – Se come voi piccina e Torna ai felici dì – che poi operistizzarono definitivamente il lavoro, tale prima stesura si dipana lungo un'intelaiatura sinfonico-vocale dove a raccontare è l'orchestra, mentre i solisti vengono circoscritti in una dimensione declamatoria (con rari conati melodici) più sussidiaria che risolutiva ai fini della delineazione psicologica e a mandare avanti l'azione è, semmai, il coro.

Pazienza, poi, se Toscanini in realtà Le Willis non le diresse mai, così come non ebbe occasione di affrontare il Concerto in Sol maggiore di Ravel che ha aperto la serata. Filo rosso di questa prima edizione del festival è comunque il rapporto tra Puccini e il maestro parmigiano (compreso un sostanzioso convegno al riguardo): rapporto che, notoriamente, approdò a mirabili risultati esecutivi, ma non fu sufficiente a dirimere la sostanziale diffidenza umana tra Giacomo e Arturo. Ben corrisposto dalla Filarmonica Toscanini, compatta nel suono e flessibile nel fraseggio, Wellber dipana la matassa delle Willis con equilibrio e cognizione di causa, da un lato evidenziando tutti i presagi del Puccini che verrà, dall'altro rendendone percepibile il debito con il teatro verdiano (all'epoca Otello e Falstaff non avevano ancora visto la luce), particolarmente vistoso sul versante del padre-baritono. Più polarizzata, o meno salomonica, la lettura del concerto di Ravel, di cui Wellber mira a restituire soprattutto la componente impressionistica. Ne scaturisce un'interpretazione incline a una “calviniana” leggerezza e amabilmente ludica nella dialettica con il solista, anche perché Daniel Ciobanu è pianista talvolta effettistico, ma sempre con ironia.

Lo svolgersi della serata presso l'Auditorium Paganini, unita alla sostanziale antiteatralità del lavoro pucciniano, ha poi suggerito la strada della mise en espace anziché della messinscena vera e propria. Sulla natura di tale antiteatralità ci sarebbe da discutere (cos'è carente nella drammaturgia delle Willis ? I continui black-out narrativi? Le ellissi con cui Puccini narrerà Manon Lescaut saranno altrettanto vistose. Il fatto che gli eventi più importanti avvengono fuori scena? Beh, allora è antiteatrale pure Il trovatore …), ma resta fermo che si è trattato di una scelta felice a partire dal luogo: la parete di vetro che funge da scatola scenica consente la vista dei sempreverdi costellanti il parco in cui l'auditorium si trova, creando un immediato richiamo all'ambiente silvestre della vicenda.

In tale contesto, la regia di Filippo Ferraresi arpeggia tra lo stilizzato e il concettuale. L'oltranzistica scapigliatura del libretto viene restituita ora attraverso il macabro più iconico (scheletro compreso), ora avvalendosi di cartelli da teatro brechtiano su cui campeggiano frasi palindrome – a cominciare dall'archetipico E presa la serpe – a memento dei continui, anch'essi scapigliatissimi, dualismi che permeano la vicenda (amore e tradimento, luce e buio, danza di fidanzamento e danza di morte). Persino la duplicazione, in sé tutt'altro che originale, della protagonista attraverso una mima-danzatrice appare inquietante, anziché prevedibile; e sono un bel colpo di teatro quelle Villi trasformate da baccanti nordiche a signore della porta accanto, erinni domestiche sventolanti madonne e santini.

Il coro (ottima la Camerata Musicale di Parma istruita da Martino Faggiani) resta l'autentico protagonista vocale, mentre Selene Zanetti e Kang Wang – sebbene qui dimidiati dall'assenza delle loro arie – s'impongono comunque l'una per un lirismo intenso, quasi scabro, l'altro per una generosità di suono che non va a scapito del controllo dell'emissione. Anche se, avvantaggiato dalla “verdianità” del ruolo, a spiccare è Vladimir Stoyanov: i passaggi più scopertamente declamatori depauperano un timbro che la lunga carriera ha già un po' inaridito, ma i momenti di canto nobile e accorato riservano una morbidezza e un'arte del porgere di gran classe.

Paolo Patrizi

8/6/2022

La foto del servizio è di Fabio Boschi.