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Il giovane Puccini e la sua Schneekugel

Dopo la bellissima Tosca, continua al Teatro Valli di Reggio Emilia l'interessante rassegna Focus Puccini, questa volta con Le Villi, prima opera del compositore toscano in scena il 29 novembre e il 2 dicembre, replica alla quale abbiamo assistito.

Una drammaturgia a dir poco semplice, che trae spunto da una leggenda dell'Europa centrale, è la base sulla quale un giovane Puccini costruisce questa opera-ballo, breve e acerba, ma in cui si intuiscono già le caratteristiche ben note agli estimatori del maestro lucchese. Già all'indomani del debutto alcuni detrattori tacciarono Le Villi di eccessivo sinfonismo, vale a dire un sovraccarico della parte orchestrale a discapito del cantato: ciò non è del tutto falso, ma va sottolineato, a onor del vero, che nel voluminoso tessuto strumentale la protagonista indiscussa è la melodia, a conferma di quanto si diceva sopra riguardo a un Puccini “classico” e già riconoscibile.

Con un preambolo del genere, hanno un bel da fare i tre protagonisti, impegnati a emergere, tra sinfonia e balletto, nel breve tempo concesso alle romanze. Ci riesce senza problemi Matteo Lippi nel ruolo di Roberto, voce che emerge e che trova il suo spazio, anche aiutata dall'aria più celebre dell'opera, Torna ai felici dì, e da un physique du rôle davvero azzeccato; buona la prova di Maria Pia Piscitelli, Anna, soprattutto nella ricerca della tragicità vocale richiesta dal personaggio, sebbene non riesca a godere di credibilità pari a quella del protagonista maschile; Guglielmo Wulf, interpretato da Michele Kalmandy, riesce a passare con disinvoltura e ottima tecnica dal registro solenne a quello angosciato del secondo atto.

Ciò che convince meno è invece l'inserimento dei personaggi nella struttura registica concepita da Cristina Pezzoli, la quale rinuncia a una messinscena dal carattere minimalista e simbolico, alla quale la trama semplicissima e la presenza delle coreografie avrebbero dato facile accesso. Al contrario, la regista preferisce porre l'accento sulla verosimiglianza e il naturalismo dei personaggi: il discorso funziona per le scene in cui è presente il coro sfarzoso, ma perde di forza quando l'azione scenica è affidata ai singoli interpreti, un po' impacciati nel mimare in maniera affettata e superflua azioni e gesti che dovrebbero apparire ordinari, quotidiani.

Né aiutano a togliere dall'impaccio, soprattutto fisico vista l'esiguità degli spazi liberi, i danzatori dell'Agora Coaching Project, coreografati da Fernando Melo, il quale fa, come è già stato detto, un buon lavoro nelle scene corali del primo atto – aiutato dai bellissimi costumi di Andrea Grazia – perdendo però fluidità nel secondo atto, durante il quale le figure che interpretano le Villi appaiono molto, troppo presenti e imprigionate in movenze che si è più abituati a vedere in un film horror che in un'opera.

Merita a questo punto una riflessione quella che, a nostro avviso, rimane la nota più interessante dell'interpretazione registica di queste Villi, espressa grazie all'ottimo lavoro dello scenografo Giacomo Andrico. Il piccolo villaggio della Foresta Nera vive nella fiaba di una natura bonaria e dai colori tenui, tutta dolci declivi e soffici prati, dove la pacifica, piccola vita degli uomini è scandita dal volgere delle stagioni al cospetto di maestosi alberi. Il minuscolo mondo vive in una perfezione fiabesca in cui sembra quasi di sentire i profumi terranei del bosco, mentre i colori tenui del fondale scandiscono, con il loro rapido mutare, le ore della giornata, ricordando per certi aspetti la luminosa visionarietà del teatro di Robert Wilson. È un universo a sé stante, una deliziosa Schneekugel austriaca (una sfera di cristallo riempita con liquido trasparente e finta neve, con all'interno la riproduzione di un paesaggio, di un monumento o di una scena tipica di un luogo), racchiusa tra le quinte di un teatro dorato: al di là dei già citati costumi, elegantissimi nella loro semplicità, vi è probabilmente una scelta precisa nella decisione di non mostrare l'abitato o altri manufatti umani riconducibili a una collocazione geografica o temporale della vicenda, lasciando così lo spettatore nel completo straniamento. Solo la presenza di un fotografo, armato di banco ottico su treppiede e impegnatissimo a scattare istantanee al vivace gruppo di abitanti – ma, ahimè, dotato di un flash bianchissimo che poco si confà agli standard dell'epoca evocata – ci suggerisce una collocazione temporale della vicenda, avvicinandoci alla seconda metà del XIX secolo, nel pieno della corrente naturalista, quando le macchine fotografiche avevano ormai rubato prepotentemente la scena ad ogni altra forma di registrazione visiva.

Giovanni Giacomelli

5/12/2018

Le foto del servizio sono di Rolando Paolo Guerzoni.