RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


I puritani

al Regio di Torino

Parigi caput mundi: negli anni Trenta dell'Ottocento la capitale francese era un crocevia di culture e personalità illustri, e la vita intellettuale e artistica fremeva di sorprendente vivacità. Naturale, quindi, che un musicista rampante come Vincenzo Bellini, incensato poco più che trentenne come uno dei maggiori operisti viventi dell'epoca, per di più sotto la protezione di un mostro sacro come Gioachino Rossini (già a Parigi da anni e che, pur non avendo più scritto altro per il teatro francese dal 1829, anno del Guillaume Tell , continuava ad essere considerato quale nume tutelare del genio italico in franco territorio, e del genere operistico in particolare), vedesse Parigi come il trampolino di lancio verso la sua consacrazione finale nell'Olimpo dei compositori. Di ritorno da un viaggio a Londra, per la ripresa di alcune sue opere, Parigi dovette sembrargli la meta ideale per proseguire la sua carriera artistica. Fu la scelta vincente: deciso il soggetto dell'opera, tratta dalla pièce teatrale Têtes rondes et cavaliers di Jacques-François Ancelot e Joseph-Xavier Boniface – a sua volta una riduzione del romanzo Old mortality di Walter Scott –, e deciso il librettista, il conte Carlo Pepoli (lo stesso Pepoli dedicatario dell'omonima epistola in versi di Leopardi: «Questo affannoso e travagliato sonno…»), poeta, sì, ma non librettista, e che tanto fece penare Bellini, il quale rimpiangeva il suo fidato Felice Romani, col quale aveva però chiuso i rapporti in malo modo dopo il (relativo) fiasco di Beatrice di Tenda , il compositore si mise al lavoro nell'aprile del 1834, e il 24 gennaio 1835 il Théâtre des Italiens risuonò per la prima volta delle note de I puritani . E quando, appena otto mesi dopo, Bellini si sarebbe spento in quella stessa Parigi (nel sobborgo di Puteaux) che gli aveva tributato immaginifici onori, sarebbe stato proprio un tema dei Puritani , la famosa cabaletta Suoni la tromba, e intrepido , a fare da catalizzatore per l' Hexaméron , un collage di variazioni virtuosistiche per pianoforte (al quale contribuirono i maggiori pianisti in circolazione: Liszt, Chopin, Thalberg, Czerny, Pixis e Herz) che la principessa Cristina Trivulzio di Belgiojoso (nel cui salotto probabilmente Bellini e Pepoli si incontrarono la prima volta) promosse per onorare degnamente di Vincenzo Bellini. Per parte sua, Gaetano Donizetti, da sempre ammiratore (non ricambiato) del Catanese, sciolse al suo genio un Requiem d'incomparabile coinvolgimento emotivo.

Il rinnovamento pressoché totale del cartellone del Teatro Regio di Torino (la ripresa dei titoli già presentati nelle scorse stagioni, La bohème, Il barbiere di Siviglia, La traviata, Norma, è limitata al solo mese di luglio, durante il quale le quattro opere ruoteranno alternandosi una all'altra) ha dato ampio spazio ad opere che non figuravano da parecchio tempo, per non dire che non sono mai comparse sulla piazza torinese: fu il caso del Giulio Cesare di Händel.

Aprile è stato il mese dei Puritani, sotto la direzione di Michele Mariotti e con la regia di Fabio Ceresa, costumi di Giuseppe Palella e scene di Tiziano Santi, un nuovo allestimento in coproduzione col Maggio Musicale Fiorentino. E proprio la scelta registica di Ceresa segnaliamo, non esente da un certo grado di libertà rispetto alle indicazioni librettistiche, ma non totalmente da rigettare (sebbene la predilezione dello scrivente vada ad adattamenti più fedelmente didascalici): si immagini quindi l'interno di una cattedrale gotica vista dal basso con forte taglio prospettico, con le vetrate alte e strette tali da provocare una fuga di linee verso l'alto; sul pavimento, lapidi di ipotetiche tombe scivolano per far emergere i personaggi che rivivranno le vicende dell'opera. Distorsione dello spazio in funzione della distorsione del tempo: se per lo spettatore il riavvicinamento tra Arturo ed Elvira avviene dopo circa un'ora di rappresentazione, per questa avviene dopo «tre secoli», mentre per quello dopo «tre mesi»: il tempo dell'orologio confrontato col tempo della coscienza, per di più ottenebrata dalla sua pazzia che le fa consumare le ore e i giorni in una sorta di limbo trasognato, allucinato e atemporale. Ora, restando pur vero tutto ciò, e pur riconoscendone il fascino, cosa che porta lo scrivente a non rigettare totalmente di averne fatto il perno di tutta la regia, non è il caso di scomodare la bergsoniana durée o la concezione temporale di Agostino (o di Einstein) per capire che il tempo percepito da uno spirito amante privato del suo oggetto d'amore trascorre ben più lentamente rispetto a quanto davvero accada: «Le temps dont nous disposons chaque jour est élastique; les passions que nous ressentons le dilatent, celles que nous inspirons le rétrécissent et l'habitude le remplit»: Marcel Proust. E non era sarebbe stato neanche il caso di scomodare un'intera macchina registica per farlo capire al forse troppo ingenuo spettatore. Probabilmente esistono due tipi di opere: un primo tipo che si presta a svariate metaletture come Il flauto magico (che cosa c'è di più allegorico, simbolico – e quindi interpretabile – della lotta tra bene e male, di un percorso iniziatico come quello di Tamino e Papageno?) o il Parsifal (riallacciandosi alla regia di Ceresa, si potrebbe pianificare un'intera regia sulla frase di Gurnemanz: «Vedi, figlio mio, qui il tempo diviene spazio»), o il Rake's progress, sorta di viaggio di formazione e faustiana aspirazione al bene traviata da oscuri patti col Maligno; e un secondo tipo che non si presta, perché tutto quel che ha da dire, lo dice già con il libretto, la musica e l'ambientazione: e tale è, a personale giudizio, quasi tutto il melodramma romantico, risorgimentale e pre-risorgimentale, filone nel quale I puritani trovano la loro collocazione.

La prima compagnia è stata ascoltata alla prima rappresentazione martedì 14 aprile 2015. Olga Peretyatko (Elvira) è interprete dalla vocalità molto tecnica, belcantista rossiniana più che belliniana, cosa che le ha fatto tratteggiare un personaggio sicuro sul lato vocale, un po' fredda sul lato interpretativo – a meno di non intendere in questa freddezza, in questo distacco dal personaggio, l'interpretazione di un'Elvira a sua volta distaccata dalla realtà, soprattutto nel Finale dell'atto I e in Qui la voce sua soave (atto II), una vera e propria schizo-frenia nel senso etimologico del termine, con tanto di allucinazioni visive e uditive. Dmitry Korchak, nel ruolo di Arturo, può accampare, a parziale difesa del suo ingresso in scena lievemente insicuro e sottotono, il fatto che A te, o cara sia un'aria impervia da cantare a voce fredda (il personaggio di Arturo fu concepito da Bellini per il tenore Giovan Battista Rubini, la cui facilità nel raggiungere i sovracuti spinse Bellini a scrivere un fa di ben tre note sopra il famoso do di petto!); si riprende infatti al III atto, dove spiega una vocalità squillante, specialmente in A una fonte afflitto e solo . Nicola Ulivieri, nell'interpretare Giorgio, rende al pubblico un accento paterno e apprensivo, che non stonerebbe per un eventuale Raimondo Bidebent in Lucia di Lammermoor : il suo personaggio risulta verosimile ed umanissimo, e ciò, unito ad una prestazione vocale di tutto rispetto, gioca senza dubbio a suo favore. Riccardo è affidato al baritono Nicola Alaimo, dotato di sfumature e buon fraseggio, ma di un legato non sempre presente. Spiace, in particolare, che nel duetto con Giorgio (finale dell'atto II) non sia riuscito ad esprimere totalmente il suo potenziale: si è stati indotti a credere che si sia voluto risparmiare, trattenere in qualche modo, e la cosa è andata a scapito del volume vocale, non sempre all'altezza per un personaggio come Riccardo.

La seconda compagnia, ascoltata sabato 18 aprile 2015, ha invece contemplato Desirée Rancatore nel ruolo di Elvira, un'Elvira più passionale e trasportata rispetto a quella incarnata dalla Peretyatko, forse perché più calata nel personaggio, forse per voler interpretare la pazzia come “furore”: a parte qualche scusabile incertezza iniziale, la Polacca Son vergin vezzosa è stata ben eseguita, e la “cabaletta della follia” Vien, diletto, è in ciel la luna (atto II) e quella finale Ah! Sento, o mio bell'angiolo (atto III) sono state corredate, nelle ripetizioni, di variazioni ardite e brillanti, com'era in uso nelle interpreti ottocentesche. Enea Scala, alias Arturo, riesce con difficoltà a non ricorrere al vibrato, che, se non utilizzato a fini espressivi, rischia di palesare una certa insicurezza nella voce; le varie sforzature, poi, non hanno contribuito a far emergere la natura prettamente lirica del personaggio, che ama Elvira ma non esita, per amore di un ideale, a scortare la regina Enrichetta e a differire le nozze. Mirco Palazzi è invece Giorgio, valido interprete vocalmente parlando, con un cantabile umano ed accorato in Cinta di rose e col bel crin disciolto (atto II), ma con un timbro un troppo chiaro per questo personaggio, dimodoché, nella cabaletta Suoni la tromba, e intrepido, cantata assieme a Simone Del Savio, nel ruolo di Riccardo, le due voci risultano molto simili, quasi due baritoni. Del Savio, invece, si è distinto nell'aria di sortita, la già menzionata, A te, o cara, ma il resto dell'interpretazione è stata penalizzata da una voce un poco troppo leggera per un Riccardo pieno di odio e di risentimento per il suo amore respinto.

Comuni ai due cast i personaggi di Gualtiero (Fabrizio Beggi) e Bruno (Saverio Fiore), validi nei ruoli a loro affidati. Delude invece, anche se non totalmente, Samantha Korbey, ovvero Enrichetta, vedova di Carlo I.

Il Coro del Teatro Regio, preparato da Claudio Fenoglio, supera egregiamente la prova, dimostrandosi compatto e sicuro quant'altri mai.

La direzione di Michele Mariotti, alla testa dell'Orchestra del Teatro Regio di Torino, che si è distinta con la consueta e ben nota professionalità (soprattutto nella sezione degli ottoni, e dei corni in particolare, chiamati nei Puritani ad accendere nell'ascoltatore l'eco d'un'atmosfera militaresca oppure en plein air) tende spesso a coprire le voci, soprattutto nei concertati, cosa che va a scapito della resa e del bilanciamento totale dei piani sonori. A parte ciò, si segnala positivamente per i tempi tenuti nella norma e per non aver ecceduto nei tagli, eccezion fatta per quelli eseguiti solitamente, che si limitano a qualche battuta di raccordo e a passaggi poco significativi per la trama; come si diceva a proposito della Rancatore, le cabalette, per esempio, sono state ripetute, senza eludere il ritornello, cosa che non può che tornare gradita agli amatori del belcanto del primo Ottocento. E, a proposito di tagli e di ripetizioni, al di là di quella che può essere la mera analisi tecnica della partitura, o del trattamento inusuale ed ampliato della “solita forma” rossiniana-donizettiana da parte di Bellini, con le sue «melodie lunghe lunghe lunghe», che colpirono un autore agli antipodi della vocalità italiana come Richard Wagner, e di ciò che Bellini avrebbe potuto fare se non fosse morto prematuramente (è errato infatti vedere nei Puritani il testamento spirituale di Bellini, deducendolo dal fatto che sia l'ultima opera del suo catalogo: ciò è puramente accidentale), l'importante è che l'autore e l'interprete (e, ampliando il discorso, qualsiasi autore, qualsiasi interprete), in una parola la musica, funzionale alle misteriose esigenze dello spirito prima ancora che di una trama o di un verso di poesia, prima ancora di tutto il resto, insomma, tocchi l'ascoltatore, lo scuota, lo ridesti ad una nuova coscienza di sé: razionalmente o visceralmente, in modo conscio od inconscio, secondo le regole del più astratto contrappunto o seguendo una rapsodica quanto capricciosa ispirazione, non importa: purché lo tocchi: quando riesce a fare ciò, qualunque analisi o critica si arrende al potere superiore di questa dea.

Christian Speranza

6/6/2015

Le foto del servizio sono di Ramella & Giannese.