I demoni di Caikovskij
Eugenij Onegin al Teatro dell'Opera
“Cosa desidero, in realtà?[...] Mi serve un dramma intimo e profondo, basato su situazioni e conflitti che io abbia vissuto per mio conto o che abbia osservato, e che mi inducano a emozione. […] Giacché una sola cosa conta per me: la mia opera deve procedere dall'intimo, senza nulla di artificioso, di stentato, di frastornante”, scrive Cajkovskij esternando la volontà di trasporre l'Onegin di Puškin in musica. Di tali esigenze Robert Carsen è perfettamente consapevole. Il suo allestimento del 1997, riproposto al Teatro dell'Opera di Roma, non appare per nulla datato. Con pochi tocchi sapienti il regista delinea il clima autunnale del dramma, il senso di vuoto che caratterizza la narrazione. Come in una commedia di Cechov impaginata da Strehler, la scena appare spoglia, pregna solo dei suoi tratti essenziali. Ecco allora le foglie morte spazzate via a evocare l'effimero trascorrere della vita umana, l'amaro rimpianto che affligge i personaggi, a delineare un cerchio simbolico nel quale andrà in scena il rifiuto di Onegin, ecco alcuni tronchi di betulle a suggerire la Russia rurale di un tempo, inevitabilmente destinata a sparire, ecco il letto e il tavolo sul quale Tat'jana verga la confessione della propria anima romantica, ecco i saloni da ballo privi di orpelli, ingombri di sedie sulle quali nessuno prende posto, a evidenziare l'incertezza che ammanta la vicenda e che turba l'animo dei protagonisti. All'inizio del dramma Onegin siede solo, fra le mani i fogli di una lettera che lo riempie di inquietudine. La confessione di una fanciulla innocente, che certo lo lusinga e che pure egli rifiuterà con algido sprezzo. La medesima fanciulla, ormai tramutata in una dama del gran mondo, siederà ugualmente sola alla fine dell'opera. Il rinnovato e tardivo impeto di passione di Onegin destinato a infrangersi contro la fedeltà al principe Gremin, legittimo consorte di Tat'jana. Il tempo ha tracciato un solco ormai insuperabile, nonostante l'indubbio fascino dell'eroe romantico. Come i demoni dipinti da Vrubel', Onegin appare afflitto da un'irrequietezza insanabile, da una solitudine che è tedio e angoscia al tempo stesso. Quel suo non essere di casa in alcun luogo, il non riuscire a credere in nulla, sono i caratteri peculiari della sua coscienza che lo accomuna a tante figure vergate dal genio di Dostoevskij, Stavrogin su tutti. Alla fredda posa di Onegin si contrappone la malinconia lunare di Tat'jana. I loro destini si intrecciano continuamente, ma non sono mai in sintonia. Le cose arrivano sempre troppo presto, o troppo tardi, quando ormai non hanno più significato alcuno. La felicità resta un sogno inattingibile.
L'impaginazione volutamente minimale nella quale solo i costumi, fra l'altro molto belli, definiscono l'epoca storica, focalizza l'attenzione sulla sofferenza intima dei personaggi. Si pensi alla splendida resa del duello, con il paesaggio avvolto in una nebbia indistinta che richiama l'annegare della coscienza. I movimenti di massa, i sontuosi balli dell'aristocrazia, sono racchiusi in cerchi di sedie vuote, come a dire che da quei confini immaginari non è possibile fuggire. L'anima resta prigioniera, delle convenzioni, di folli e incomprensibili ostinazioni. In questo c'è il carattere di un intero popolo.
Se la complessità del romanzo in versi è certo ridotta nella trasposizione operistica, Cajkovskij mantiene un equilibrio e una sobrietà espositiva che è propria anche del poeta. Nessun sentimentalismo eccessivo affligge la partitura. In questo senso la direzione di Conlon appare splendida nel veicolare il materiale emotivo eludendo qualsiasi tentazione retorica. L'orchestra lo segue con magistrale adesione al dettato narrativo. Riguardo il cast, Marcus Werba è un Onegin musicale e ben cantato, anche se gli manca la profondità abissale del tormento interiore. L'emissione è corretta ma il timbro, un poco arido di armonici, non è ideale per una figura dalle ampie ombreggiature. Marya Bayankina ha grande presenza scenica e doti vocali adatte al personaggio di Tat'jana. Chi scrive ricorda ancora la magnifica prova della Freni nel medesimo ruolo e sullo stesso palcoscenico nell'ultima apparizione romana del titolo nel 2001. Al soprano modenese recentemente scomparso erano infatti dedicate le recite attuali. Senza voler proporre paragoni peregrini, al soprano russo manca ancora qualcosa per rendere tutte le sfumature del personaggio, in particolare nell'ampia scena della lettera. La sua prova è comunque da ricordare. Bravissimo Saimir Pirgu, un Lenskij meno evanescente del solito, dalla linea vocale solida e comunque in grado di rendere la tormentata fragilità del poeta. John Relyea canta in maniera appropriata la celebre aria di Gremin, mentre Yulia Matochkina è una Ol'ga sufficientemente leziosa e sbarazzina. Ottimo Andrea Giovannini, un Triquet efficace e misurato, brava Anna Viktorova nel ruolo della balia Filipp'evna. Ottime infine le parti di contorno, a cominciare dal collaudato Andrii Ganchuk (Zareckij) e da Irida Dragoti (Larina), entrambi frutto del progetto Fabbrica del Teatro dell'Opera di Roma. Teatro pieno in occasione dell'ultima recita e pubblico letteralmente entusiasta.
Riccardo Cenci
3/3/2020
La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.
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