RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

Il nuovo fa paura (?)

 

Sebbene lo dessi un po' per scontato, il primo concerto della serie Rai Nuovamusica, venerdì 28 ottobre 2022, non ha lontanamente replicato il successo della trionfale apertura della stagione “ufficiale” dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN). A poco è valso il fatto che due dei tre pezzi presentati fossero eseguiti per la prima volta all'auditorium Arturo Toscanini di Torino e che il terzo mancasse in sala dal 2007, quando lo diresse Raphel Frühbeck de Burgos: sala e balconata erano pieni per metà, e gli applausi, volti quasi sicuramente solo al livello di esecuzione (sempre di qualità, nonostante le tante oggettive difficoltà delle parti) e non ai brani in sé, sono stati tiepidi. Ma si sa: tutto ciò che oggi è classico, dato ormai come imprescindibile, un giorno è stato contemporaneo di qualcuno, e ci sono fior fiore di testimonianze che attestano fiaschi clamorosi alle prime di pezzi che oggi giudichiamo bellissimi. Forse è una miopia quasi giustificabile quella che non permette ai contemporanei o semi-contemporanei di non comprendere appieno gli ultimi sviluppi dell'arte, e della musica di cui qui si parla, forche caudine sotto le quali autore e brano debbono passare forzatamente e per un lungo tratto prima di essere, se non apprezzate, per lo meno comprese.

Il fatto che questa piccola rassegna di concerti sia denominata “nuova musica” dovrebbe essere inteso non già come dato temporale (quando una cosa smette di essere nuova? Per chi, poniamo, a cinquant'anni, è digiuno di classica, anche Mozart può essere nuovo), ma conoscitivo. Se il nuovo fa paura e va evitato, Rai Nuovamusica è traducibile con Rai Musicadatemere/Musicadaevitare. Credo sia ciò che hanno pensato tutti coloro che su quelle poltrone rosse la settimana scorsa hanno applaudito la Seconda di Mahler (il quale diceva di lui stesso: il mio tempo verrà…) e che stavolta sono stati altrove. Certo, dire che il coinvolgimento emotivo sia uguale è azzardato e suonerebbe come snobistico, almeno per me. Ma finché non si fa uno sforzo per aprirsi al nuovo, quel nuovo, ripeto, rimarrà un hic sunt leones dal quale stare alla larga.

La scaletta proposta dalla serata ha seguito un iter antitemporale, aprendo con il brano più recente e finendo con quello più antico. Un viaggio a ritroso nel tempo, come ha sottolineato il direttore artistico Ernesto Schiavi, il cui fil rouge è stato la forma musicale della variazione, da sempre la forma che propone la varietà nell'unità: sempre uguale, ma sempre diverso. Sotto la direzione di Gergely Madaras, attuale direttore musicale dell'Orchestre Philarmonique Royal de Liège, l'OSN ha eseguito dapprima le Variazioni per orchestra dello statunitense Elliott Carter (1908-2012), scritte nel 1954-55.

Si è passati poi alle Variazioni canoniche sulla serie Op.41 di Schönberg a firma di Luigi Nono. Scritte nel 1950 ed eseguite a Darmstadt il 27 agosto dello stesso anno, esse subirono un curioso destino, come racconta l'autore stesso: «Dopo la 1a esecuzione assoluta la partitura sparì. Dopo anni ritrovai tutto il materiale d'orchestra dal quale ho trascritto questa partitura com'era con minime aggiunte che sono tra parentesi quadre [] e precisazione di tempi» (dalla dedica a Wolfgang Steinecke nell'edizione a stampa Ricordi del 1985). L'opera, come dice il titolo, prende a modello la serie di suoni utilizzati da Schönberg per la sua Ode to Napoleon Bonaparte Op.41, su testo di George Byron. L'organico diminuisce sensibilmente, archi sfoltiti al minimo, mentre rimane piuttosto variegata la componente dei fiati e delle percussioni. Il risultato è una sonorità notturna, misteriosa, rotta qua e là da improvvisi scoppi sonori.

Il tempo dell'intervallo ed eccoci alla radice della dodecafonia orchestrale, con le Variazioni per orchestra Op.31 di Schönberg stesso. Risaliamo, come detto, ancora più indietro: le abbozza nel 1926, si dedica ad altre composizioni e le riprende nel 1928, terminandole ad agosto. Niente meno che Wilhelm Fürtwängler le tiene a battesimo a Berlino, a dicembre. Esito disastroso. Alla ripresa del concerto il pezzo viene espunto. Tanto per ribadire quanto detto sopra.

L'orchestra torna sul palco rimpolpata, ma a differenza di quanto accadeva in Carter, qui l'uso della grande massa orchestrale è parcellizzato, raramente il suono è prodotto dal tutti. È caratteristica della dodecafonia sfruttare una scrittura cameristica, e non per nulla essa vide i primi esperimenti condotti sul pianoforte solo, poi su piccoli ensemble, quartetti o poco più. Con l'Op.31 Schönberg tenta, stando a sue dichiarazioni, l'approccio con la grande orchestra, tenuto presente che il monumentalismo attraeva di più, e che la gente aveva bisogno di vedere, oltre che di sentire.

Fa pensare il fatto che, nel Finale di queste variazioni, proprio Schönberg, colui che davvero rompe per primo i rapporti con la tonalità, che aveva imperato per secoli come unico modo con cui comporre, va a citare le quattro note si bemolle-la-do-si naturale, che in notazione tedesca formano la parola BACH. Come a dire che, se si è arrivati fin qui, è grazie a uno dei padri fondativi della musica come la conosciamo noi oggi. Collegamento mentale: se può essere complesso seguire (e apprezzare) un pezzo come le Variazioni canoniche su Vom Himmel hoch BWV 769 per organo, di Bach, in cui vengono sviluppate delle variazioni, appunto, in forma di canone sul tema di un corale, possiamo solo immaginare quanto sia complesso seguire (e apprezzare) delle variazioni canoniche su una serie dodecafonica come nel brano di Nono. La dodecafonia non è per tutti, e neanche del tutto per me. La si apprezza più sulla carta che all'ascolto, perché all'ascolto suona ostica, angosciante, pochissimo orecchiabile. Ma a pensarci bene anche l'ultimo incompiuto lascito bachiano, Die Kunst der Fuge (che si interrompe proprio sull'elaborazione fugata del tema BACH, tra l'altro), è un lavoro talmente astratto da non essere destinato ad alcuno strumento, scritto per il puro diletto della mente (che poi “suoni bene” per qualunque strumento lo si voglia trascrivere, è un altro discorso). E c'è al mondo chi preferisce un diletto più mentale, chi apprezza un trattato di matematica e lo studia con passione, e rifiuterebbe di leggere Il signore degli anelli perché non conduce alla verità della logica, e chi esige dall'arte che lo faccia evadere dalla troppa logica, e straveda per le opere più fantasiose, magari portandolo per le vie del fantastico a verità differenti ma di pari valore. Se c'è una cosa bella della musica, è che essa riesce a fare entrambe le cose: il puro dato fisico del suono può far vibrare corde di uno strumento, della mente, del cuore, tutte e tre assieme, più le une o più le altre: dipende. A ciascuno il suo. Certo che finché non ascoltiamo…

Christian Speranza

1/11/2022