RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Aida monumentale al Regio di Torino

È un'Aida monumentale quella che va in scena al Teatro Regio di Torino nel febbraio-marzo 2023, secondo titolo della stagione dopo Il barbiere di Siviglia. Il capolavoro verdiano, eseguito per la prima volta il 24 dicembre 1871 al Teatro chediviale dell'Opera del Cairo per celebrare il neonato canale di Suez – e approdato in Italia poco dopo, l'8 febbraio 1872 alla Scala di Milano, in quella che Verdi considerò la prima vera “prima” –, mancava dal capoluogo piemontese dal novembre del 2021, quando venne eseguita in forma di concerto presso l'auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto. In quell'occasione gli sfortunati amanti egizio ed etiope furono Angela Meade e Stefano La Colla. Il sodalizio artistico di questi interpreti torna a rinverdirsi in occasione della Regia ripresa, che li vede protagonisti nel primo cast assieme alla Amneris di Silvia Beltrami, mentre i nomi di Erika Grimaldi, Gaston Rivero e Anastasia Boldyreva figurano nel secondo.

La regia di affida all'allestimento monumentale di William Friedkin, rimontato da Riccardo Fracchia, già sfruttato qui al Regio per le mise en scène delle stagioni 2005-2006 e 2015-2016: da buon regista cinematografico – premio Oscar nel 1972 per Il braccio violento della legge, Leone d'oro alla carriera nel 2013, più conosciuto per L'esorcista del 1973 –, Friedkin punta tutto sulla ricreazione di un Egitto da kolossal, di grande impatto e di esaltante resa visiva, un Egitto il meno oleografico possibile, ricostruito con avvertita cura del particolare sia nelle scene più grandiose – la fresca penombra di una sala del tempio a inizio primo atto, sotto un alto, imponente colonnato; mura con bassorilievi e scritte egizie, statue mastodontiche di faraoni e dèi nella scena dell'investitura di Radamès; baldacchino per Re e principessa nella scena del trionfo, con dispiegamento di un preparatissimo corpo di ballo, una nutrita schiera di comparse e oggetti di scena, labari, gonfaloni, vessilli, le immancabili “trombe egiziane”, le tre in La bemolle a sinistra, le tre in Si a destra, financo l'impiego di due piroghe con sagome animate zoomorfe, opera di Michael Curry, che però si limitano a trascorrere per il palcoscenico, una da destra, una da sinistra, sospinte da due comparse, rendendo il loro intervento occasionale un leggero pleonasmo scenografico: il tutto, unito alla presenza di coro e massa corale, non fallisce l'obiettivo di una grande teatralità –, sia in quelle d'interno più intime – l'alcova di Amneris all'inizio del secondo atto, retrocessa nel palcoscenico, in modo da dare agio al balletto di eseguire le coreografie (di Anna Maria Bruzzese) nello spazio antistante, un'alcova quasi “ritagliata” nel palco, bordata di nero, riquadrata, sospesa e isolata, come una diapositiva o un quadretto, una stampa fineottocentesca, tutta ancelle dagli ondeggianti flabelli, mollemente adagiate attorno alla principessa o assise al telaio del lino sui bordi di una piscina i cui riflessi mobili e fluttuanti vengono ripresi, grazie a un riuscitissimo gioco di luci (di Andrea Anfossi), sulla parete di fondo color sabbia, decorata da geroglifici smaltati – o notturne – le delicate nuances turchine e cobalto del terzo atto, col cielo stellato sullo sfondo e l'ingresso del tempio di Iside in primo piano: colori che evocano notti tropicali dopo afose ore diurne, rese nella scena precedente col grigio pietra, l'ocra e le sue gradazioni –, senza dimenticare la scena finale del quarto atto, voluta da Verdi stesso suddivisa in due piani sovrapposti, sotterranei del tempio nella parte inferiore, dal lucore pressoché inesistente, dall'aria opprimente e irrespirabile, l'ara del dio in quella superiore, con Amneris che invoca pace per i morenti e, c'è da crederlo, per lei stessa. I costumi non sono da meno delle scene, firmati entrambi da Carlo Diappi, ancora una volta fedeli a un'iconografia standardizzata e documentata, che non cedono alle ovvietà del kitsch; in un gesto anticipatore del finale, durante il Preludio a scena aperta, Aida e Radamès si incontrano solitari in una sala del tempio, e lui le sfila languidamente un drappo rosso che lascia scivolare a terra: lo stesso drappo rosso che, alla fine del quarto atto, mentre ormai le ultime note sfumano, quando il canto non è più che un ricordo, Radamès, ormai invisibile nell'abbraccio dell'ombra, lascia cadere nel cono di luce al centro del palcoscenico: gesti di una poesia interpretativa che solo in parte le parole riescono a riferire. Un finale anche qui da cinema, tocchi di eleganza che stupisce di veder cozzare con movimenti stereotipati del coro, di una quasi totale assenza di interazione tra i personaggi, quasi che, monadi a sé stanti, non riescano davvero a comunicare, e a una poca verosimiglianza di gestualità in alcune occasioni: citandone due, quando Aida insuperbisce contro Amneris e subito dopo se ne pente, il suo gettarlesi innanzi è ritardato, forzato, visibilmente obbediente a un copione (“Adesso devo fare così”), il suo prosternarsi non pronto, non spontaneo – ed è ininfluente la diversa corporatura delle due interpreti, poiché si muovono in modo simile –; e quando Amonasro afferra Aida per i polsi e nel massimo dello sdegno le grida in faccia: «Dei faraoni tu sei la schiava» e la sospinge via, i movimenti e gli atteggiamenti risultano non naturali e molto poco credibili: inezie, forse, che però nella concitazione di certe scene risultano più evidenti che in altri contesti.

Una certa rigidità di impostazione si rileva anche nella direzione di Michele Gamba. Intendiamoci, la sua Aida non è per nulla disprezzabile, e nello svolgimento di diversi numeri la sua bacchetta, peraltro seguita dall'Orchestra del Teatro Regio, valida e prestante come al solito, riesce a sottolineare e delineare con appropriatezza di agogiche e dinamiche atmosfere ed emozioni: degne di nota la scena dell'investitura, gran parte del secondo e del terzo atto, per finire con un finale ultimo veramente rarefatto e sfumato ad hoc. Eppure… Eppure qua e la alcune cadute di stile incrinano un risultato nel complesso molto soddisfacente. L'Orchestra è manovrata in modo attento e preciso finché i mezzi richiesti sono contenuti: quando l'organico si amplia, l'effetto bandistico consegue quasi in automatico: ecco quindi il contrapporsi di fragorose esplosioni di suono a, per esempio, una marcia trionfale fin troppo sobria, fin troppo poco pomposa, travolgenti onde di suono che finiscono col sommergere i solisti – il che capita soprattutto col povero Amonasro – sbavando gli insiemi, perdendo di lucidità nella condotta melodica. Rigidità intesa quindi come “o tutto o niente”.

Ampiamente convincenti i cast, che si distinguono entrambi per caratteristiche proprie e autonome (il primo ascoltato domenica 5 marzo, il secondo martedì 28 febbraio) e che dimostrano anche un equilibrio nell'assortimento dei solisti. Due Aide egualmente valide, quelle della già ricordata Angela Meade (primo cast) e di Erika Grimaldi (secondo), la prima più eroica, volitiva e battagliera, la seconda più eterea e onirica. Verrebbe da dire complementari. Complice anche un volume vocale più ampio, un registro centrale scuro e robusto, un grave dominato con facilità e un acuto potente, benché talvolta poco controllato, la Meade, che conferma le impressioni positive già registrate quale solista nel Requiem verdiano di gennaio, sempre qui al Regio, riesce al meglio ove Aida esprime passionalmente il suo dolore o le sue emozioni («Ritorna vincitor!…», duetto con Amonasro prima e con Radamès poi nel terzo atto, ecc.), dove lascia libero corso a invettive e preghiere; per converso, si avventura con prudenza nei filati, nei momenti di ripiegamento più pensosi e trasognati («Numi, pietà…», «O patria mia…», ecc.). Filati e sfumature che invece riescono con aggraziata souplesse alla Grimaldi, più affini al suo repertorio. Degne controparti maschili i Radamès di Stefano La Colla (primo cast) e Gaston Rivero (secondo). Tra i due si notano anche evidenti differenze di impostazione di voce e di conseguenza di emissione. La voce di La Colla è più rispondente al “tipo” Radamès, timbro lucido, di buon squillo, salda negli acuti, dove non perde di smalto ma anzi svetta sicura – memorabile il suo «Sacerdote, io resto a te», cantato con lo stesso piglio, poniamo, del «Vittoria!» di Cavaradossi –, così come calda nei piano – nel passaggio «Celeste Ai-da» non prepara l'acuto, non “raccoglie” la nota prima di emetterla: la emette, punto e basta. Rivero, timbro più scuro, si dimostra invece, mi si passi il calembour, stentato e stentoreo. Forse non bene in voce a inizio recita, il suo Celeste Aida riesce ingolato, con voce che non corre e che si arrampica faticosamente fino al si bemolle finale; migliora sensibilmente nel corso della rappresentazione, comunque, giungendo ancora con qualche esitazione al Pur ti riveggo del terzo atto, dove l'emissione è comunque di gola e forzata, per quanto migliore rispetto all'inizio, e concludendo bene con i duetti con Amneris e Aida al quarto atto. Equivalenti invece le figlie del faraone: nessuna delle due esibisce il piglio agguerrito del mezzosoprano “tigre” verdiano, soprattutto nel rapporto con Aida nel lungo duetto di inizio secondo atto; entrambe, sia Silvia Beltrami (primo cast), sia Anastasia Boldyreva (secondo), preferiscono attestarsi su un livello di spessore e personalità che gioca “al ribasso” fino al quarto atto, per poi ribaltare il giudizio fino a quel punto poco lusinghiero, rivelando inattese doti di credibilità e interpretazione grazie a vocalità, se non perfettamente allineate con la Amneris voluta da Verdi, per lo meno studiate e lavorate ad arte per attagliarvisi, la prima estraendola da un retroterra belcantistico, la seconda da un repertorio variegato, che spazia fino a Hindemith: per entrambe valgono un valido dominio della scena e del ruolo, padronanza dell'estensione richiesta, fraseggio, scorrevolezza e volume più che adeguati, sia nel duetto con Radamès, sia soprattutto nell'invettiva contro i sacerdoti.

Interrogativa la prestazione di Gevorg Hakobyan, che si trova a ricoprire un ruolo, quello di Amonasro, la cui parte è drammaturgicamente decisiva ma musicalmente esigua: e spiace constatare, a parte il momento di furia contro Aida, ove viene coperto dall'orchestra, come si diceva – l'effetto “o tutto o niente” di cui sopra –, una certa staticità di espressione, che implica impersonalità del personaggio, a fronte di un timbro piacevole, scuro, vibrante. Peccato poi per il sonoro starnuto dalla platea, cui qualcuno risponde altrettanto sonoramente Salute! proprio durante il suo duetto con Aida, nel momento in cui la linea vocale si addolcisce e viene per un attimo a somigliare a quella della Leonora della Forza . Altrettanto statico, impersonale e poco convincente il Ramfis di Evgeny Stavinsky, ben fatto invece per Marko Mimica nei panni del Re. Il cast è completato da Thomas Cilluffo (Messaggero) e Irina Bogdanova (Sacerdotessa), artisti del Regio Ensemble, che disimpegnano bene i loro ruoli. Menzione d'onore infine per il superbo, meraviglioso Coro della Casa, istruito a puntino da Andrea Secchi, che si produce, nella scena dell'investitura, in pianissimi religiosi e omogenei, di ottima fattura, il punto più alto della sua partecipazione in quest'opera, più ancora che nel «Gran finale secondo», come lo chiama Verdi in partitura. Meritatissimi quindi i prolungati applausi a fine secondo atto al Coro, e alla produzione tutta alla fine del quarto.

Christian Speranza

17/3/2023

Le foto del servizio sono di Andrea Macchia.