Trent'anni di OSN
Nel 1993 Torino venne scelta quale città in cui fondere le quattro orchestre Rai italiane in una: i complessi di Milano, Roma e Napoli, oltre che di Torino stessa, confluirono così nell'Orchestra Sinfonica Nazionale, OSN, nella stessa culla in cui nacque la loro antesignana nel 1931: l'Orchestra Sinfonica dell'EIAR, divenuta poi Rai. Nel corso del tempo, all'Orchestra dell'EIAR si affiancarono quelle delle città sopra citate; la decisione di scioglierle e di tornare a una fu presa per ragioni economiche. Ma da quel momento, l'OSN venne diretta dai maggiori direttori in circolazione, e sul suo podio si avvicendarono nomi del calibro di Vittorio Gui, Herbert von Karajan, Sergiu Celibidache, Carlo Maria Giulini, Riccardo Chailly, Lorin Maazel, Zubin Mehta, Wolfgang Sawallisch e molti altri, oltre a solisti di pregio.
A tacere del Pelléas et Mélisande di Debussy in forma oratoriale, eseguito all'auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto il 22 settembre 1994, i primi due concerti “ufficiali” dell'OSN nella sua sede, l'auditorium di piazza Rossaro, 1 (dal 2007 auditorium Arturo Toscanini) furono quelli del 24 e del 30 settembre. A dirigerli, rispettivamente Georges Prêtre e Giuseppe Sinopoli.
Per ragioni anagrafiche, chi scrive non ha memoria del decennale del 2004, ma ricorda con affetto, e un pizzico di nostalgia, considerando gli anni che passano, il concerto del ventennale, nel quale Juraj Valcuha diresse un'encomiabile Missa Solemnis di Beethoven. Per il trentennale, quest'anno, l'OSN ha deciso di tornare alle origini e di eseguire, in due concerti che anticipano di poco la stagione vera e propria, gli stessi due programmi di Prêtre e Sinopoli, peraltro quasi in concomitanza con le date esatte. Precisione sabauda…
Si parte quindi mercoledì 25 settembre 2024 con una scaletta di brani impaginati con intelligenza e legati da un doppio filo. Il primo è quello del periodo storico – il primo Novecento, dagli anni Dieci agli anni Trenta. Il secondo è quello della danza. Il concerto si apre infatti con la Suite dal Rosenkavalier, collage dei momenti più suadenti e ballabili dell'opera che Richard Strauss, aiutato da Arthur Rodzinsky, compilò nel 1946, ad oltre trent'anni dalla composizione (1909-1910), essenzialmente come operazione di marketing – prosaicamente, per fare cassetta dopo la disfatta della seconda guerra mondiale. Una compilazione che si meritò un numero d' opus a parte, il 59, a differenza per esempio di altre suite , come quella dello Schiaccianoci, che dovette “accontentarsi” del 71a. Der Rosenkavalier debuttò a Dresda il 26 gennaio 1911. Mentre era in gestazione, ecco Stravinskij mettere in scena, il 25 giugno 1910 a Parigi, L'oiseau de feu Op.20, uno dei grandi ballets russes di Djagilev della belle époque, basato su una fiaba popolare russa. Il successo travolgente, che l'avrebbe portato a scrivere pagine ancora più audaci, Petruška (1911) e Le sacre du printemps (1913), indusse Stravinskij già l'anno dopo a ricavarne una prima sintesi: e nacque la suite del 1911. Ma è con quella del 1919 che riuscì a far circolare meglio le sue musiche, sia sfrondando l'organico (che si mantiene comunque su dimensioni notevoli), sia estrapolando quasi del tutto altri brani. Non per nulla è ancora oggi quella più eseguita, come in questo concerto. Seguirà a distanza la terza suite del 1945, più ampia. Di poco posteriore è infine il Boléro di Ravel (1928), che non ha bisogno di presentazioni: con la sua ripetizione ossessiva di due frasi melodiche strumentate in modo sempre più massiccio, fino alla deflagrazione finale (tecnica, questa di una discesa senza ritorno, che Ravel aveva già adottato anni prima con un'altra composizione dedicata alla danza: La valse Op.72, del 1919-20, sebbene con connotazioni grottesche), Ravel erge un monumento alla varietà nell'unità, affidandosi in toto alla sua abilità di orchestratore. Quello che avrebbe dovuto essere il balletto per Ida Rubinštein ha finito nel tempo per diventare uno degli emblemi della musica da concerto. (Con ben altra valenza drammatica Šostakovic sfrutterà la ripetizione di una stessa frase ad orchestrazione crescente come “tema dell'assedio” nella Settima Sinfonia).
Ma oltre all'unità di intenti, storica e contenutistica, questo programma è un'ottima occasione, grazie a tre fra i più grandi strumentatori del Novecento, per sfoderare le notevoli qualità di questa orchestra, visto anche il nutrito organico richiesto. Sul podio di un auditorium che finalmente, dopo la pandemia, ritrova le prime file di poltrone – rimosse a quel tempo per ragioni di sicurezza e di distanziamento –, sale a fare gli onori di casa Andrés Orozco-Estrada, direttore principale dell'OSN. Via quindi alla Suite Op.59 di Strauss, meravigliosamente diretta e meravigliosamente eseguita grazie a un'intesa viva e palpabile. Il Con moto agitato (l'Ouverture dell'opera) proietta subito l'ascoltatore nel vivo dell'azione, ma è la sezione lenta seguente a convincere, l'offerta della rosa d'argento, dalle fascinose evoluzioni, chissà, forse non immemori, data l'amicizia che li legava, di certo Mahler della Terza (episodio della cornetta da postiglione) e della Sesta (la celesta del primo movimento), che, slegati dal contesto operistico, assumono valenza quasi paesaggistica, richiamando gli «interminati spazi» leopardiani. Morbido e compatto, il suono dell'OSN si mantiene denso e fluido al tempo stesso, e si espande con un lirismo intriso di decadente, languorosa grandiosità, per poi destarsi a nuova vita e farsi agile e smagliante col Tempo di Valse (il valzer del barone Ochs) e col conclusivo Schneller Walzer, dove l'intervento del rullante e la musica briosa richiama da vicino i valzer dell'altro Strauss (quello del Capodanno). Versatilità straordinaria di un'orchestra avvezza a passare con disinvoltura da un repertorio all'altro…
Versatilità che forse si coglie meno passando a Stravinskij, dove la misura e il contegno prevalgono, nella direzione di Orozco-Estrada e di conseguenza nella “sua” orchestra, in tal modo annullando parzialmente la carica di eversività della partitura. L'Introduction – L'oiseau de feu et sa danse e la Variation de l'oiseau de feu, senza dubbio ben eseguite, non arrivano a trasmettere quella carica di inquietudine del serpeggiare dei violoncelli nel registro grave, contegnosamente chiusi in una sobrietà sin eccessiva. E ciò, se può assecondare l'atteggiamento espressivo del brano che segue, la Ronde des princesses, di grande morbidezza, espressione musicale d'impalpabili zendadi, purtroppo non si attaglia alla brutale e feroce Danse infernale du roi Khorovod, dove la brutalità e la ferocia si esplicano in potenti bordate di grancassa, in strappate degli archi, in sulfurei guizzi di ottavino… mitigati però da una morigeratezza che fa qui da freno alla corsa dell'orchestra. Intendiamoci, non che sia “venuta male”, questa suite: solo si sarebbe voluta un po' più di “primitività” che di lì a poco sarebbe esplosa nel Sacre. Ci sarebbe da domandarsi come Stravinskij e Strauss avrebbero diretto i loro pezzi, tanto più che entrambi furono direttori ospiti dell'OSN…
Punto d'incontro della serata è stato il Boléro, tenuto in serbo per ultimo come fuoco d'artificio, che ha permesso all'OSN di esibire tutte le sue risorse sia nei pieni orchestrali, sia negli interventi solisti. Apparentemente semplice, il Boléro stritola non solo l'ascoltatore nelle sue spire di suono sempre maggiori, ma mette alla prova la resistenza e la precisione della compagine. Prova ad ogni modo superata senza apparenti difficoltà, sia per quanto riguarda la resistenza – plauso a Carmelo Giuliano Gullotto, al rullante, impegnato nelle centosessantanove (!) ripetizioni delle due battute di ostinato –, sia per quanto riguarda la precisione, dove, tolte qualche veniali sporcature nei difficili ribattuti del corno, tutto è stato eseguito con smaliziata perizia e nella più ammirevole pulizia sonora.
L'andamento ripetitivo della composizione, «impersonale», per citare Ravel, ha permesso, prima che il finale scatenasse platea e balconata in applausi prolungati e convinti, rivolti talvolta a singoli elementi dell'OSN, un paio di riflessioni. La prima è che, in linea teorica, qualunque orchestra potrebbe eseguire il Boléro: come un meccanismo d'orologio, una volta avviato, funziona tutto da sé. L'unica cura da tenere sotto controllo è l'impercettibile crescendo che attraversa tutto il brano, qui peraltro ben risolto. Il punto è che un'orchestra non è un meccanismo d'orologio: è fatta di persone. Ed ecco quindi le sottili differenze tra un'esecuzione e l'altra. Francesco Giussani, per esempio, primo fagotto, ha avuto modo di distinguersi in un penetrante assolo nella Berceuse dell'Oiseau; ma le inflessioni ironiche, quasi jazzistiche, con cui colora il suo intervento nel Boléro, e così pure i glissandi di Diego Di Mario, primo trombone, sono valori aggiunti che screziano e differenziano un'esecuzione che per altri versi risulterebbe realmente un po' fredda, nonostante la fascinazione timbrica sempre cangiante. Ed è in questi dettagli, peraltro sollecitati dal gesto direttoriale di Orozco-Estrada, che si coglie l'attenzione con cui è stata preparata. La seconda è che una composizione del genere obbliga l'ascoltatore a interrogarsi. Di fronte agli sviluppi sinfonici di un Beethoven, all'elaborazione motivica di un Brahms, ai contrappunti di Bach e di Händel, Ravel risponde con un'immobilità che da questo punto di vista può sembrare quasi banale, priva di scavo di idee, ergendo quali unici punti di forza il timbro, la potenza del suono e una compiaciuta abilità di orchestatore (basti pensare a quale tavolozza timbrica ricorra per i Quadri di Musorgskij). Perché dunque il Boléro piace? Piace perché fa leva sull'istintiva sollecitazione uditiva; obbliga l'ascoltatore a interrogarsi, ripeto, sul valore del suono stesso. Una volta distolta l'attenzione dall'elemento motivico, Ravel la fa concentrare su quello timbrico, anzi, sulle varietà timbriche come possibilità primigenie di dare un “volto sonoro” a qualsiasi melodia potenziale.
Se non è questo un pregio…
Christian Speranza
27/9/2024
Le foto del servizio sono di DocServizi – Sergio Bertani/OSNRai.
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