Un Re Ruggero cinematografico
apre la stagione di Santa Cecilia
Una sorta di strano cammino iniziatico segna la trama di Re Ruggero, lavoro che il polacco Karol Szymanowski dedica al sovrano normanno e alle sotterranee alchimie culturali fra Oriente e Occidente. Il protagonista, lontano da qualsiasi pretesa di verosimiglianza storica, accoglie tratti caratteriali dello stesso compositore, morbosamente diviso fra educazione cattolica e fascinazioni pagane. La musica di Re Ruggero sfugge le tentazioni di cerebrale freddezza in un'orgia sonora di sontuosa varietà, dominata da un senso epifanico destinato a concretizzarsi nel finale. Le peculiarità di un lavoro solo in un secondo momento definito opera, dalla forma ibrida e apparentemente poco adatta alla rappresentazione teatrale, ne hanno limitato la presenza sui palcoscenici di tutto il mondo. Unica eccezione, almeno in ambito italiano, la città di Palermo, che per il compositore diviene simbolo di rinascita estetica di fronte agli orrori della contemporaneità. Il ricordo del viaggio mediterraneo intrapreso nel 1911 si radica talmente a fondo nell'animo di Szymanowski da generare, vari anni dopo, l'idea del dramma di Ruggero. Merito di Antonio Pappano aver riproposto questo titolo ingiustamente negletto, mai visto a Roma, per l'inaugurazione della nuova stagione dell'Accademia di Santa Cecilia, prima delle rappresentazioni scaligere programmate nel 2021. La trama è esile ma fortemente ipnotica, l'azione ridottissima come nella più consumata tradizione oratoriale. Squarcio mediterraneo la definì Gianandrea Gavazzeni, profondo estimatore della partitura, cogliendone i tratti di un misticismo inquieto e febbrile. La comparsa di un pastore turba l'apparente idillio del mondo dominato da Ruggero. Lo straniero dalle fattezze cristologiche è in realtà Dioniso, simbolo di un culto legato all'ebrezza e all'amore. Eppure nel finale il dionisiaco sembra confluire nell'apollineo, con il re che tende le mani verso la luce del sole, finalmente liberato. L'azione appare come un'immersione nell'inconscio tipica di quegli anni, segnati dalle folgoranti intuizioni freudiane. La partitura stessa, con il suo sincretismo stilistico che attinge alle atmosfere morbose di Richard Strauss quanto alle sonorità raffinate di Debussy, trabocca di un decadentismo estenuato, filtrato attraverso una ispirazione profondamente personale. Una scrittura che riflette i bagliori dorati delle decorazioni musive dell'amata Sicilia, ornata e ricca come un variopinto tappeto orientale. Eppure l'ambientazione di Re Ruggero è in prevalenza notturna, come oscuri sono gli abissi interiori del suo protagonista. L'allestimento visto a S. Cecilia è appunto cinematografico, con i tre atti eseguiti senza soluzione di continuità. Buio in sala, con le sole proiezioni video del duo Masbedo a suggerire percorsi, a offrire suggestioni. Non vi è l'aspirazione a costruire una drammaturgia, ma solo un farsi e disfarsi di immagini elaborate sul momento. Corpi che cancellano simboli religiosi tatuati sulla pelle, frammenti di statue classiche che richiamano l'universo dechirichiano, oggetti che affondano lentamente in densi impasti dorati. Visioni superflue, si potrebbe obiettare. Se alcuni momenti appaiono effettivamente poco coerenti con gli sviluppi della trama, altri riescono a evocare con forza primigenia i meandri di un mondo destinato a restare sconosciuto.
La direzione di Pappano asseconda con ammirevole flessibilità i diversi registri della partitura; dai momenti fonicamente maestosi di derivazione straussiana a quelli ritmicamente animati, dal piglio stravinskiano, sino alle preziosità coloristiche vicine al gusto francese. Il tutto innervato da un senso narrativo robusto e da un'attenzione alla cantabilità tipicamente italiana. Eccellente il coro, preparato in maniera impeccabile da Ciro Visco, con una lode particolare per le straordinarie voci bianche. Buoni anche i solisti. Lukasz Golinski incarna perfettamente i tormenti del Re, sfoggiando nel contempo notevoli mezzi vocali. Lauren Fagan è una Rossana dalla voce limpida e ben governata. Edgaras Montvidas ammanta la figura del pastore di un'aura misteriosa e astratta. Se il timbro non appare particolarmente accattivante e l'emissione è a volte lacunosa, eccellente appare però l'aderenza stilistica, specialmente nel canto a mezza voce. Buono Kurt Azesberger nei panni del confidente Edrisi. Autorevole infine Marco Spotti nei panni dell'Arcivescovo, austera come si conviene la Diaconissa di Helena Rasker.
Riccardo Cenci
9/10/2017
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