Un insolito Roberto
«C'era la Bergamo vecchia, in cima a un basso monte, cinta di mura e di porte, e c'era la Bergamo nuova, ai piedi del monte, aperta a tutti i venti». L'incipit de La peste a Bergamo di Jacobsen non fa presagire la tremenda desolazione che descrive, pervasa come suggerisce il titolo di scenari di morte. Ma la fascinazione dell'estremo trapasso che nella Danimarca di fine Ottocento prende forma in questo breve racconto potrebbe applicarsi anche alla regia che Stephen Langridge propone per il Roberto Devereux della decima edizione del Donizetti Opera Festival.
Sulla carta, Langridge è il regista perfetto per questo titolo. Londinese, classe 1963, figlio di tenore, studi giovanili di corno, dal 2019 direttore artistico del Festival di Glyndebourne e, in ambito strettamente donizettiano, con una Maria Stuarda alle spalle al Grange Park Opera nel 2005. Gli manca solo l'Anna Bolena e poi avrà completato la cosiddetta “trilogia Tudor”, la triade di opere donizettiane dedicate alle regine inglesi, che Donizetti non intese comporre volontariamente ma che, passando per la Stuarda del 1835, presero corpo fra il 1830 (la Bolena, appunto) e il 1837 (il Devereux, battezzato al San Carlo di Napoli il 28 ottobre).
Alla prova dei fatti, però, ciò che si è visto al Teatro Donizetti di Bergamo, in occasione della terza e ultima recita di giovedì 28 novembre 2024, scandaglia il kitsch spacciandolo per un Rinascimento fittizio e rivisitato. Non serve leggere l'intervista della monografia per capire che «la produzione non è affatto realistica o oggettiva, ma nemmeno l'opera di Donizetti lo è». E qui si aprirebbero fratture insanabili tra chi la pensa in un modo e chi in un altro. Che un'opera non sia «realistica o oggettiva», non occorre esplicitarlo. Nessuna lo è, sensu stricto. Langridge, coadiuvato da Katerina Petsatodi, affida le scene e i costumi a Katie Davenport. Le scene sono minimali: parallelepipedi marroni si spostano qua e là, surrogati di quel tribunale che condanna Roberto e dai cui banchi la giuria, alias il coro (il Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, ben diretto e ben amalgamato da Salvo Sgrò) si affaccia per non più che testa e petto, nerovestito a parte le gorgiere bianche, similmente a Lord Cecil, che si fregia anche di un berretto da lanzichenecco piumato, e a Sir Gualtero Raleigh. Su questi elementi compaiono scritte bianche in inglese antico, frammenti di testo di Roberto stesso, «autentici, bollati», che il programma di sala riporta fedelmente ricordando che il Devereux storico è stato anche scrittore e poeta; punto a favore sicuramente nell'ottica di una fedeltà dei fatti, subito smentito dal gioco dell'impiccato col nome R-O-B-E-R-T-O che si forma mentre il solista si prodiga nella sua grande aria del terzo atto, Io ti dirò fra gli ultimi. Si contendono la scena, per il resto spoglia, un trono stilizzato e un letto matrimoniale, entrambi rossi e montati su improbabili rotelline: ma così pacchiani da ricordare quei complementi d'arredo da mobilificio al risparmio, che nessuno comprerebbe mai (forse…). Il tutto immerso nel buio costante delle luci di Peter Mumford, in fastidioso contrasto con l'accecante cornice bianca che si accende ogni tanto a riquadrare il palcoscenico. Perché poi il letto venga sospeso a mezz'aria da quattro cavi al second'atto e venga poi fatto scendere, resta una di quelle interrogative bizzarrie di dubbio gusto, come l'anello di Elisabetta qui ridotto a piccolo led da dito.
Che non sia «realistica o oggettiva», che sia anche brutta, e in linea con le stranezze dell'opera, d'accordo; che «la messinscena [sia] sicuramente contemporanea, ma […] in un mondo elisabettiano di fantasia», sembra verosimile ma non lusinghiero. Di contemporaneo ci sono le libertà che il regista si prende, mentre la pretesa del rifarsi all'epoca in cui è ambientata la vicenda si invera solo con molta fantasia; e che il Bardo rivisitasse spesso soggetti storici con abiti contemporanei, come sottolinea ancora Langridge nell'intervista, sa di nozionismo fine a se stesso. Sara, dapprima in sottoveste bianca, è aiutata dalla regina a indossare un abito a fiori che trova il suo completamento nella sopravveste cerulea, in sintonia col completo di Roberto. Come mai però debba apparire incinta, non si sa; forse per aggravare la relazione adulterina con Roberto (che, come di prassi nei libretti di Cammarano, è castissima). Inspiegabile poi la casacca viola su pantaloni viola-blu del Duca di Nottingham, che finiscono in alti stivali marroni. Ma a stupire di più è Elisabetta, che, se dalla vita in su appare come una parodia del look rinascimentale, pallidissima in volto e con una parrucca rossiccia, tolta al termine dell'opera con sgomento della corte, dalla vita in giù è ricoperta da una gonna con un bel teschio a vista, riferimento alle tante Vanitas secentesche fiamminghe, di cui viene esposto un campionario su un tavolino di plexiglass stazionante per tutta l'opera sul proscenio a sinistra: un teschio, una clessidra, candelabri e fiori – amenità che nel corso della recita si moltiplicano, adornando il pavimento. Né basta: la suggestione della morte permea la recita portando in scena uno scheletro, mosso a mano secondo le indicazioni di Poppy Franziska, vestito da Elisabetta, figurazione dello spettro che la regina dice di vedere nel suo delirio. Roberto vi balla assieme, palmo a palmo, ma anziché visione orrifica o suggestione decadente, il siparietto si fa scherno irridente di una realtà in fondo molto meno poetica.
Nel corso di questi anni il Festival è purtroppo incappato diverse volte in regie inconcludenti o poco significative (come pure alternate ad altre molto ben riuscite, sia chiaro); ma se questa è stata una di quelle volte, a controbilanciare le sorti della recita provvede un côté musicale di tutto rispetto, a cominciare dall'Orchestra Donizetti Opera, che serve all'orecchio, con la consueta perizia esecutiva, un suono equilibrato e sobrio, al netto di qualche clangore pleonastico soprattutto nelle chiuse d'atto. Della direzione si dirà dopo. Piatto forte della serata e maggior motivo d'interesse è ovviamente il cast, qui rinsanguato da almeno due nomi di prima grandezza.
Il primo è quello di John Osborn, belcantista di prima grandezza che restituisce il rôle-titre con volitiva mascolinità laddove il canto lo richiede, accostata a filati e delicatezze di grande pulizia e bellezza. Per il primo aspetto, bastino le prodezze sfoderate nel duetto al second'atto con Elisabetta; per il secondo, si ascolti (quando ne verrà fatto il DVD, come di consueto per la Dynamic) il trasognato duetto di fine primo atto: un merletto di cesellature, di mezze voci dosate col bilancino. La gran scena e aria del terzo, poi, è una lezione di canto in piena regola, dall'intenso lirismo del cantabile, il già ricordato Io ti dirò fra gli ultimi, all'energica cabaletta Bagnato il sen di lagrime; a farla da padrone, un uso indovinatissimo del legato e del canto appoggiato sul fiato.
Ma si sa che, pur non nominalmente, il Devereux è l'opera di Elisabetta; anzi, la fonte del dramma è proprio Elisabeth d'Angleterre di Jacques-François Ancelot. La gelosa amante di Roberto è interpretata in questa produzione dall'altro grande nome della serata, quello di Jessica Pratt, ormai ospite consueta del Festival, che si cimenta qui per la prima volta col ruolo. Un ruolo aspro, impervio, creato per Giuseppina Ronzi de Begnis e che ancora oggi conserva il fascino di un canto a tratti addirittura luciferino, con rapidi scarti dall'acuto al grave e la necessità di un'omogeneità di registro che deve coprire almeno tre ottave buone – un canto che anticipa sorprendentemente due grandi donne negative primoverdiane: Abigaille e Lady Macbeth. La gola di Jessica Pratt si rivela ancora una volta una miniera di gemme belcantistiche. I succitati requisiti, facilità dall'acuto al grave e omogeneità di registro, sono completamente soddisfatti, con un sorprendente affondo nel grave, dove, a dispetto della facilità che dimostra in acuto, ricava un suono ancora bello denso, caldo e polposo. Una voce piena e matura che alle naturali qualità di squillo e potenza assomma una tecnica lodevole, dispiegata in un declamato espressivo, sovente prossimo al parlato nella verosimiglianza del portato drammatico, in colorature sgranate e in una scultorea resa del testo, coronata dall'ultimo, svettante acuto, ancora solido nonostante si fosse alla fine della terza recita, quarta con l'anteprima giovani. Non da meno il resto del cast. La Sara di Raffaella Lupinacci si distingue per presenza e luminosità vocale, insolita in un registro mezzosopranile, e in interessante antitesi con la voce tendenzialmente più scura, rispetto alla sua, della Pratt – un'antitesi che giustifica la sua designazione di secondo soprano nella scaletta dell'epoca. Potenza espressiva e grande padronanza dei mezzi tecnici la fanno emergere soprattutto nel grande duetto del terzo atto con Nottingham, mentre si fa apprezzare per un bel canto sfumato nel duetto con Roberto al primo. Più articolato è il giudizio sul Nottingham di Simone Piazzola. Se nel primo atto fatica a focalizzare l'emissione, che talvolta appare malsicura pur salvandosi grazie a un abile mestiere (e non è cosa da poco), negli altri due dipinge vocalmente un marito dominato dal risentimento, dal senso dell'onore e della gelosia (il pensiero non può che correre al futuro Renato verdiano); Piazzola calca sull'aspetto più viscerale del suo personaggio, rendendolo con voce ferma, piuttosto solida e di buon colore. Completano il cast il Lord Cecil di David Astorga, tenore piuttosto leggero, il famigliare di Nottingham di Fulvio Valenti e il Sir Gualtiero Raleigh di Ignas Melmikas, promettente allievo della Bottega Donizetti.
Qualche dubbio permane sulla prestazione attoriale generale, che è sembrata poco naturale, in certi casi forzata, forse in linea con un allestimento che prevede tali rigidità conformandosi a un tipo di teatro rinascimentale compassato. E qualche dubbio permane sulla direzione di Riccardo Frizza, che, pur essendo precisa e puntuale e in linea con l'alto standard al quale ha abituato il pubblico delle edizioni scorse, non trova qui l'involo necessario a dare una coesione di fondo alla recita, che in definitiva, a parte alcuni culmini espressivi, non entusiasma, a differenza di molte altre recite passate. Ciò non ha impedito a palchi e platea del Donizetti di tributare a lui e a tutto il cast scroscianti e convinti applausi.
Christian Speranza
30/11/2024
Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.
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