L'atleta e l'intellettuale 
Se oggi al cinema remake è sinonimo di pigrizia creativa e intenzione di ripercorrere successi consolidati, nel melodramma italiano del diciottesimo secolo realizzare la nuova versione d'un lavoro altrui rappresentava, al contrario, una fertile volontà di emulazione e una sfida competitiva. Quando nel 1733 Metastasio scrisse il testo dell' Olimpiade, apparve chiaro che su quel dramma in tre atti immediatamente messo in musica da Caldara sarebbero potuti tornare altri compositori: subito dopo toccò a Vivaldi e, nel 1735, a un Pergolesi venticinquenne eppure già quasi alla fine della sua fulminea parabola artistica e terrena. Molti poi ancora seguirono (da Galuppi a Piccinni, da Jommelli a Cimarosa), ma nessuno riuscì a eguagliare la varietà di toni e la grazia increspata di malinconia della musica pergolesiana. Forse perché questa vicenda dove gli ideali della giovinezza convivono con un serpeggiante senso della morte era, col senno di poi, premonitoria per un musicista destinato a congedarsi dal mondo a ventisei anni. A Jesi, che all'autore della Serva padrona diede i natali, L'Olimpiade era andata in scena nel 2002: un'edizione memorabile (direttore Ottavio Dantone), riproposta con immutato successo nove anni dopo. Riaffrontare l'opera oggi, in una nuova produzione di tutt'altro segno, ha rappresentato dunque un appuntamento ormai non più rinviabile a distanza di quasi tre lustri e, al contempo, una sfida. Si preferisca la nostalgia del passato o si voglia compiacere il nuovo che avanza, sta di fatto che il Teatro Pergolesi ha realizzato un altro spettacolo importante: sarebbe un peccato se non approdasse in altri palcoscenici. Come da tempo è consuetudine jesina, si è affidato l'allestimento a giovanissimi vincitori di concorso per specializzandi in scenografia nelle Accademie di Belle Arti, poi guidati da un regista di più o meno collaudata esperienza. E, replicando un copione già verificatosi in analoghe occasioni, il lavoro degli scenografi e costumisti in erba è sembrato più riuscito di quello del regista navigato.
Fabio Ceresa firma una regia ricca di trovate che, però, non si coagulano in drammaturgia unitaria. L'idea di base – trasferire l'olimpiade narrata da Metastasio nelle Olimpiadi berlinesi del 1936, macchina propagandistica del regime nazista prima che grande kermesse atletica – non è né buona né cattiva: è appunto un'idea che, non adeguatamente sviluppata, rischia di apparire un mero ammodernamento per offrire allo spettatore coordinate meno remote dell'arcadica età dell'oro metastasiana. Affidare a una pantomima nella parte alta del palcoscenico (bravissimi i quattro mimi-danzatori) la ricostruzione dei flashback che puntellano la vicenda è a sua volta un buon escamotage, che tuttavia, a fronte dell'impianto “berlinese”, sembrerebbe pensato per un altro spettacolo. E anche la ridefinizione delle psicologie (i temi dell'amicizia maschile e della solidarietà femminile, entrambi sotto l'ombrello dell'ideale classico della gioventù come bellezza, qui si tramutano in quattro caratteri “moderni” senza tentazioni archetipiche) sarebbe efficace: ma estrapolate una a una, e non nella prospettiva d'una dramatis personae unitariamente rinnovata. Dunque, ecco un Megacle animato da autentico spirito sportivo a fronte d'un Licida intellettuale irrisolto, nonché – in parallelo – un'Argene ribelle e un'Aristea remissiva ma resiliente. Intorno a loro, un Clistene che rappresenta più la debolezza connaturata a ogni potente che il dissidio tra ragion di stato e diritto di natura; un Alcandro che riassume insieme l'ambiguità sessuale del melodramma barocco e le perversioni dell'eros nazista; infine un Aminta spaesato, perché della figura ancillare del confidente metastasiano una riscrittura così non sa cosa farsene.
A fare da collante fra tante valide intuizioni poco collegate tra loro, il lavoro dei giovani Bruno Antonetti e Giulia Negrin: l'uno realizza una scenografia spoglia, tendente a una funzionale astrazione e incentrata soprattutto sugli oggetti di scena; l'altra firma dei costumi che lasciano convivere anni Trenta e mondo classico, spesso ad alta densità semantica (le palandrane impolverate o infangate di Clistene e Alcandro, specchio d'un potere che affonda nella palude da lui stesso creata). Ne deriva una visualità dalle rifrazioni metalliche, pulviscolari; e con suggestioni figurative contraddittorie, dunque ben calzanti per un'opera dove le false identità sono ingrediente drammaturgico basilare. Le scene, infatti, occhieggiano all'architettura razionalista, mentre i costumi talvolta sembrano guardare (l'inopinato cambio d'abito di Alcandro) al Kabarett della Repubblica di Weimar: due riferimenti – in questo contesto – fertilmente ossimorici, trattandosi di realtà artistiche bollate dal nazismo come “degenerate”. Mentre a proiettarci in piene Olimpiadi del '36, e dare un più compiuto senso alla trasposizione d'epoca, provvede la maestosa scalinata dell'ultimo atto: quando i personaggi vi salgono in cima, gli spettatori hanno quel colpo d'occhio dal basso in alto che replica le celebri inquadrature di Leni Riefenstahl nel propagandistico, e visionario, film Olympia.
Giulio Prandi, alla guida dell'Orchestra Ghislieri, si preoccupa soprattutto d'imprimere un vivido andamento: attacchi energici (sebbene si tratti d'un dinamismo che non sempre si mantiene per l'intera arcata del brano), passo spedito (a prezzo anche di qualche taglio: ma ne aveva fatti pure un direttore-filologo come Dantone), sollecitazioni drammatiche anteposte alle esigenze di simmetria e levigatezza. Nel cast, sotto l'aspetto vocalistico s'impone l'Argene di Silvia Frigato: restituisce una figura femminile lucida e combattiva attraverso un canto espressivo e sorvegliato, trascolorante con perfetta continuità dalla dimensione pastorale a quella aristocratica. Sul fronte della resa teatrale spicca invece l'inconsueto Alcandro di Francesca Ascioti: voce inevitabilmente un po' disomogenea in certi impressionanti affondi contraltili, ma notevole personalità musicale e soprattutto scenica, nell'incarnare un'intrigante ambiguità e torbida sensualità. Carlotta Colombo ha impresso suadente lirismo alla dignitosa rassegnazione di Aristea, mentre i due amici en travesti hanno trovato in Theodora Raftis un Megacle tanto malinconico nel cantabile quanto pulsante nelle colorature e in Josè Maria Lo Monaco – l'elemento di più lunga esperienza – un Licida debitamente contraddittorio nei suoi conati di eroismo. Meno a fuoco i due tenori (il Clistene di Anicio Zorzi Giustiniani e l'Aminta di Matteo Straffi), ma almeno il primo si lascia apprezzare per la malinconia che, dietro la facciata del politico tetragono, imprime al suo tiranno di Sicione.
Paolo Patrizi
24/11/2025
La foto del servizio è di Marco Pozzi.
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