Mahler il risorto
E pensare che, quando glielo fece ascoltare, fresco d'inchiostro, dopo averlo composto di getto nel 1888, il primo tempo di quella che sarebbe diventata la sua Seconda Sinfonia, e che provvisoriamente intitolò Totenfeier (Rito funebre), non venne accolto tanto bene da Hans von Bülow. Una volta alzatosi dal pianoforte, Mahler ascoltò giudizi come: «Se questa è musica, io non capisco niente di musica» o: «In confronto a questo, il Tristano sembra una sinfonia di Haydn». Von Bülow non avrebbe potuto immaginare che proprio il suo funerale, ad Amburgo, nel 1894, sarebbe stato di folgorante ispirazione per quello stesso Mahler che, presente, trovò nelle parole di un lavoro di Friedrich Klopstock, Aufersteh'n, ja, aufersteh'n (Risorgerai, sì, risorgerai), cantate durante la cerimonia, il testo per il Finale di quella sinfonia che man mano gli stava crescendo tra le mani e che, fino a quel momento, non voleva saperne di trovare una sua forma, un suo percorso. Nel frattempo erano nati altri tre movimenti, un Andante moderato, che costituirà il secondo tempo della sinfonia in costruzione (e si assumerà il compito di stemperare la tensione dei venticinque minuti abbondanti del Totenfeier), e, tra gli altri, due Lieder tratti dal Wunderhor: Des Antonius von Padua Fischpredigt (La predica di Sant'Antonio da Padova ai pesci) per baritono, e Urlicht (Luce primordiale), per soprano, entrambi del 1893: il primo, privato della voce umana, diventerà il terzo movimento della sinfonia, mentre il secondo, voce compresa, il quarto. Così costituito, il torso sinfonico di quattro movimenti veniva a completarsi di quel gigantesco finale che, sul testo di Klopstock, avrebbe assunto il significato di un vero e proprio giudizio universale, con tanto di grande distruzione all'inizio, appello dall'oltretomba (reso dai corni fuori scena in distanza), faticoso e accidentato iter a mo' di purgatorio, ricapitolazione del grande appello e, infine, apparizione salvifica del coro che, coadiuvato da due solisti, un soprano e un mezzo, assolvono l'ascoltatore, giunto ormai al termine di un percorso ascendente, elevandolo alle altezze delle sfere celesti: altezze che Mahler avrebbe toccato, e forse superato, soltanto col finale dellOttava Sinfonia.
Il fatto che la critica abbia giudicato la Resurrezione di Mahler un'accozzaglia cacofonica e troppo ardita fin dalla sua prima esecuzione integrale a Berlino il 13 dicembre 1895 (mentre il pubblico si spellava le mani dagli applausi) oggi fa sorridere: non a caso Mahler stesso la scelse come composizione di addio quando lasciò la direzione dell'Hofoper di Vienna nel 1910. La resurrezione del Mahler compositore era già iniziata. E, per fortuna nostra, si sarebbe protratta fino ai giorni nostri.
Torino la scelse nel 2006 per inaugurare la nuova sala dell'auditorium Arturo Toscanini, abituale sede dei concerti dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), in quell'occasione sottoposta a ulteriori lavori di ristrutturazione. E, se quella volta venne diretta dal maestro Rafael Frühbeck de Burgos, in occasione dell'undicesimo concerto della stagione 2019/2020, giovedì 23 gennaio 2020, di cui si riferisce (con replica venerdì 24), è l'attuale Direttore Principale James Conlon a prendere in mano la bacchetta per guidare la “sua” OSN nella lunga e impervia partitura mahleriana. Al concerto prendono parte anche il soprano Lucia Cesaroni, il mezzosoprano Vivien Shotwell e il Coro del Teatro Regio di Parma, ben istruito da Martino Faggiani.
Conlon si dimostra fedele a una visione complessivamente “teatrale” e drammatica della partitura, non smentendo il taglio che aveva dato, a inizio stagione dell'Egmont beethoveniano. Si parte con il primo tempo, Allegro maestoso che pone l'accento più sul maestoso che sull'Allegro: la dinamica è piuttosto lassa, al di sotto della tesa lettura che più diffusamente si reperisce su disco o su YouTube; l'attacco iniziale dei violini primi è “scivolato”, non secco, e tutto il brano si adagia su un approccio, come si diceva, più lirico, più teatrale, che eroico. Scelta interpretativa, a giudizio dello scrivente, condivisibile solo in parte, laddove le riserve sono da attribuire alla facilità con cui si perde il nerbo e il filo del discorso musicale, soprattutto nei movimenti mahleriani, noti per le loro ampie dimensioni: le ultime terzine discendenti, ad esempio, anziché essere eseguite con rapidità fulminea, quasi una ghigliottina sul collo dell'eroe sinfonico, calano lente come un sipario alla fine d'un primo atto d'opera.
A questo primo blocco sonoro Mahler prevede che segua una pausa di almeno cinque minuti. Raramente rispettata, l'indicazione è disattesa anche stavolta. Segue un Andante moderato di grande eleganza interpretativa, che esemplifica tutta la grazia e la cortesia viennese. Molto apprezzato il prodigio di leggerezza e levità della sezione in pizzicato degli archi, postillata qua e là dai cinguettii dei legni.
Scatta immediatamente, senza pause in mezzo, lo Scherzo, con quei due colpi di timpano in fortissimo che danno avvio al fluido e mobile discorso degli archi. Nonostante il piglio ancora teatrale, che non sfonda il muro della compostezza e raffrena gli entusiasmi anche (persino) nel passaggio dell'”urlo di dolore” (sic Mahler) a tre quarti del movimento (ma perché?), si nota l'attenta sottolineatura degli accenti e degli sforzati segnati in partitura (con la quale il concerto è stato seguito), che scandiscono bene la pulsione ritmica.
Rapisce in estasi la voce di Lucia Cesaroni, che avvolge nei suoi pianissimi la melodia e l'orchestrazione estremamente bilanciata di Urlicht (fatto ascoltare con lungimirante intelligenza in una rassegna di Lieder mahleriani la settimana prima dalla voce di Matthias Goerne e sotto la direzione di Michel Tabachnik). È forse il movimento in cui la direzione di Conlon meglio si attaglia alla musica di Mahler. Simile giudizio molto positivo per Vivien Shotwell, benché il suo intervento sia limitato alle ultime pagine della sinfonia.
Peccato per l'andamento generalmente stantio del Finale, colossale nelle sue dimensioni ma, proprio per questo, se trattato con tempi lassi e polso malfermo, rasentante la noia. Il continuo saliscendi emotivo dato dall'alternanza di momenti esaltanti e momenti tragici è pericoloso da trattare, perché facilmente si scade, come è accaduto, nella farragine sonora non sostenuta da un adeguato substrato di tensione emotiva. E questo, in un movimento che da solo supera la mezz'ora, stanca. Ci pensa per fortuna l'ottimo Coro del Teatro Regio di Parma a salvare gli ultimi minuti. Equilibratissimo in quell'entrata appena sussurrata, di grande difficoltà perché intonato senza sostegno strumentale, la prestazione di questa compagine vocale convince appieno e man mano cresce fino a esplodere nelle battute conclusive, trovando la giusta ricompensa nei lunghi e prolungati applausi che le vengono riservati. Bene anche per l'Orchestra Sinfonica Nazionale, che, indipendentemente dalla direzione, riesce come sempre ad attestarsi su livelli di notevole qualità.
Christian Speranza 1/2/2020
Le foto del servizio sono dell'Istituto Più Luce.
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