Dalle tenebre alla luce
La Seconda Sinfonia di Mahler al Teatro Regio di Torino
Di sicuro effetto, la scelta del Teatro Regio di Torino di inaugurare la stagione concertistica con la Seconda Sinfonia, “Resurrezione”, di Mahler non poteva passare inosservata. A dirigerla, sabato 24 ottobre 2015, un Gianandrea Noseda chiamato, negli stessi giorni, ad aprire anche la stagione operistica con l'Aida; ad eseguirla, l'Orchestra e il Coro del Teatro Regio (Claudio Fenoglio maestro del coro), con la partecipazione di Regula Mühlemann (soprano) e Anna Maria Chiuri (mezzosoprano). È proprio la “Resurrezione” a dare il via al «Progetto Mahler», ciclo di concerti promosso dal Regio volto ad esaurire il repertorio mahleriano con la cadenza di un (capo)lavoro all'anno.
«Ti annuncio la felice venuta al mondo di un sano e vigoroso ultimo movimento della Seconda. Padre e figlio sono in condizioni soddisfacenti […]»: così scriveva Gustav Mahler, nel giugno 1894, a Otto e Fritz Löhr: dopo sei anni, la travagliata gestazione della Seconda Sinfonia giungeva al termine. L'inizio, infatti, è da collocarsi nel 1888, sul finire delle revisioni della Prima, con la stesura di un poema sinfonico intitolato Todtenfeier (“Cerimonia funebre” o “Glorificazione della morte”). Ma, prima di fare di Todtenfeier il primo movimento di una nuova creazione sinfonica, sarebbe passato ancora qualche anno. Il progetto inizia a prender corpo nell'estate del 1893, a Steinbach, dove, sulle sponde dell'Attersee, Mahler dà vita all'Andante moderato (su materiale abbozzato nel 1888) e al Lied Des Antonius von Padua Fischpredigt (La predica di Sant'Antonio da Padova ai pesci), che, con lievi modifiche, costituirà lo Scherzo della Seconda. I primi tre movimenti sono in sostanza pronti; se ne aggiunge un quarto, un Lied per contralto sulla poesia Urlicht (Luce primigenia) tratta da Des Knaben Wunderhorn, raccolta di testi popolari tedeschi cui Mahler attinge a piene mani in tutta la prima parte della sua produzione. Ma Urlicht non poteva certo costituire la conclusione della sinfonia: avrebbe potuto fungere, semmai, da introduzione alla conclusione, in modo da preparare l'orecchio dell'ascoltatore, con la sua atmosfera rarefatta, ad un Finale in linea col resto della composizione. Le proporzioni complessivamente assunte dal blocco dei primi quattro movimenti, infatti, sono le più ampie mai viste fino a quel momento nella storia della sinfonia: solo un Finale grandioso, sintesi e superamento dei movimenti precedenti, che includesse anche, sull'esempio della Nona di Beethoven, coro e solisti, avrebbe potuto portare degnamente a compimento un organismo così imponente come la Seconda Sinfonia (che resterà, nel corpus dei lavori mahleriani, quella più ambiziosa di tutte, a parte l'Ottava). Rivaleggiare con la Nona di Beethoven voleva dire, però, non solo scrivere musica di qualità eccelsa, ma trovare parole che comunicassero valori universali, assoluti, come quelli dell'Ode An die Freude di Schiller. La scelta impegnò Mahler per diverso tempo; tuttavia, per quanto setacciasse la letteratura, nessun testo sembrava fare al caso suo. Poi ad Amburgo, il 29 marzo 1894, ascoltò l'inno di Friedrich Klopstock Aufersteh'n (“Risorgerai”) al funerale di Hans von Bülow: e fu una folgorazione. Su appunti presi già il giorno stesso, l'abbozzo del Finale prese corpo in sole tre settimane. Ne venne fuori il movimento più vasto della sinfonia, il più ardito e ambizioso, con strumenti fuori scena, organo, coro misto, due soliste (soprano e contralto) e grande orchestra; non contento, Mahler intervenne direttamente sul testo di Klopstock, interpolando brani di suo pugno (a mio parere, i versi più intensi). La sinfonia veniva così a descrivere il percorso di un immaginario eroe sinfonico (che, per stessa ammissione di Mahler, è l'eroe della sua Prima Sinfonia portato alla tomba, nel primo movimento – lettera del 1895 a Max Marschalk) dalle tenebre alla luce, verso la resurrezione: e “Resurrezione” fu appunto il soprannome che si guadagnò questo brano, per volontà indipendente (e suppongo contraria) da quella dell'autore. Von Bülow, il direttore preferito di Wagner, lo stesso che, anni prima, aveva stroncato senza pietà Todtenfeier, eseguitogli al pianoforte da Mahler stesso, aveva inconsciamente fornito l'ispirazione che latitava da tempo. Dopo l'esecuzione dei soli primi tre movimenti, diretti da Mahler stesso nel marzo 1895 durante un concerto della Filarmonica di Berlino (voluto da Richard Strauss), che ricevettero una pessima accoglienza, la première integrale avvenne nel dicembre dello stesso anno sempre a Berlino, con un successo rassicurante ma non entusiasmante. Anni dopo, però, diventò la «partitura feticcio» (Henri-Louis de La Grange) che Mahler utilizzò nel 1907 per dare l'addio a Vienna e nel 1908-10 per farsi conoscere a New York e Parigi.
Il trasporto dell'appassionato e l'imparzialità (per quanto possibile) dell'esegeta devono qui trovare un equilibrio per evitare di tediare il lettore. L'interpretazione di Noseda e l'esecuzione dell'Orchestra e Coro del Regio sono state alternatamente lumeggiate di genio e adombrate di goffaggini, che hanno, queste ultime, prodotto l'effetto di un punto nero in un quadro tutto bianco: di per sé non troppo gravi, eppure in grado di attirare un'attenzione (quasi) superiore a quella dei non pur pochi pregi. Pregi che si concretizzano in un suono quasi tangibile dell'orchestra, in una chiarezza espressiva delle linee melodiche, ben rilevate, ed un'apprezzabile trasparenza del tessuto orchestrale (mirabili le entrate delle sezioni di archi divisi nell'Andante moderato). Un'orchestra da teatro d'opera, abituata a dare rilievo ai cantanti, non sempre trova il giusto smalto sonoro quando è ella stessa protagonista (e non basta semplicemente “suonare più forte”!). L'Orchestra del Regio riesce invece qui ad imporsi, grazie a centoquattordici esecutori ben affiatati, comprensibilmente non tutti in perfetta forma per via delle ben dieci repliche di Aida (di cui la nona il pomeriggio del giorno prima e la decima il pomeriggio del giorno dopo la Seconda di Mahler…). Scusabili, pertanto, alcune entrate non del tutto nitide, soprattutto dei fiati (corni, flauti e oboi).
Noseda si riconferma croce e delizia del pubblico torinese. A fronte di una nutrita schiera di estimatori e di successi internazionali, molti aspetti della sua direzione continuano a suscitare perplessità (in primis nello scrivente). Il gesto direttoriale è spesso non giustificato, eccessivo, nervoso: e giocoforza trasmette nervosismo all'orchestra. Il Todtenfeier, per esempio, marcato Allegro maestoso, di maestoso ha ben poco a causa della sua eccessiva velocità, paragonabile (ma più veloce) a quella adottata da Claudio Abbado (laddove io vedo più maestosità nella conduzione di Gustavo Dudamel). Quanto alla scala ascendente di violoncelli e contrabbassi eseguita staccata (alla Boulez), si vorrebbe con sincera buona fede trovare traccia in partitura di tale staccato: ma non c'è. Nell'impossibilità di soffermarsi su ogni particolare, una nota di merito va ascritta al rispetto della grande pausa prevista da Mahler alla fine del primo movimento, prima di attaccare col secondo (ben condotto, ma a velocità eccessiva). Più nelle corde di Noseda lo Scherzo, il movimento meglio diretto dei cinque. Morbidissimo il quarto, con una sublime Anna Maria Chiuri solista, vera oasi di elevazione mistica dopo i ripetuti scoppi orchestrali dei movimenti precedenti. Nel Finale, l'utilizzo accorto e coerente del fuori scena (le quinte del teatro) è tocco di classe che restituisce in pieno tutta l'inventiva mahleriana della gestione degli spazi sonori. Infine, il coro, col quale può cominciare l'ascesa e la resurrezione: un coro che non delude, compatto, omogeneo, ben istruito, forte di ottantun coristi, che entra etereo e delicato, in pianissimo a cappella: un'entrata difficilissima. Peccato che, senza alcun strumento ad indicare una base armonica, tale entrata sia stata falsata di un mezzo tono verso il grave. Parlando con un orchestrale dopo il concerto, sono venuto a sapere che è ammesso, in caso di errore, aiutare il coro suonando pianissimo una nota di riferimento ai bassi, a discrezione del direttore: nota che non è stata eseguita. Poco male: una défaillance da cui presto il coro si riprende, conducendo la sinfonia ad una conclusione luminosa, in cui (Deo gratias!) la velocità si attesta su valori che permettono al materiale sonoro di espandersi in tutta la sua intrinseca grandiosità, uno dei grandi segreti e delle grandi peculiarità della scrittura mahleriana.
Christian Speranza
11/11/2015
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