Barcellona: inizio di una nuova Tetralogia
S'incomincia naturalmente da L'Oro del Reno e sempre con due compagnie (in questi momenti se ne sente sempre meno il bisogno). Il direttore musicale del Teatro, Josep Pons, si accinge per la prima volta a quest'impresa e lo fa complessivamente bene anche se sicuramente potrà dare di più (le famose note iniziali sono state piuttosto opache, ma la situazione veniva presa in mano dal secondo quadro in poi). L'orchestra dimostra le sue forze ma anche i limiti attuali (archi piuttosto secchi, ottoni brillanti ma con più di un problema, i fiati il settore più affidabile). Il nuovo allestimento (l'anteriore di Kupfer era molto buono) viene da Colonia per la regia di Robert Carsen, nome che è garanzia d'intelligenza anche se più di una volta con delle arbitrarietà notevoli. In questo prologo sembra che la proposta (un po'seguendo le orme di Chereau ma in modo personale) sia una lettura ecologico-politica con tanto di gente che butta di tutto e di più nel povero fiume (le cui ondine amano lo splendore dell'oro in mezzo alla sporcizia più completa, e pure loro sembrano più vicine del Cenciaiolo dell' Iris ...): perfino gli déi in un ultimo atto di disprezzo alla fine vi gettano i mozziconi delle loro sigarette... déi che sono dapprima una casta piuttosto militare e alla fine diventano dei leader in abito da sera con la First Lady (Fricka) e una Freia che non si sa – a parte le mele della giovinezza – cosa stia a fare. Erda è già migliore, i giganti sono dei manovali asserviti al regime, la loro forza è chiaramente in vendita e diventa minacciosa se non ricompensata nella forma adeguata. Alberich è uno psicotico brutale che sfrutta i suoi sudditi meno che umani. Alla fine tutti entrano contenti e spregiudicati con grande sfarzo e luci da corteo militare nella fortezza che chiaramente è partita male e Loge già dichiara un po' superflua.
La direzione di Joan Pons, direttore musicale del Liceu, è stata chiara anche se all'inizio poco brillante o travolgente (il famoso ‘preludio') e se l'orchestra pure facendo un grande sforzo non ha superato certe limitazioni (colore degli archi, stonature degli ottoni – che però in buona parte dimostravano un bel suono e un'evidente superazione davanti a questa sfida), credo che andrà sviluppandosi e ‘crescendo' nelle prossime stagioni.
Un doppio cast è ormai – tranne che per alcuni titoli popolari – un'impresa difficile ma ancora siamo agli ultimi bagliori del passato recente del Teatro. Alan Held e Albert Dohmen erano due rispettabilissimi Wotan, il primo più per voce e figura, il secondo per fraseggio. Lo stesso va detto dell'Alberich di Oleg Bryjak e Andrew Shore. Katarina Karnéus è una voce meno ‘wagneriana' ma più interessante sul versante drammatico di Mihoko Fujimura. Mikhail Vekua è stato un bravo e unico Mime (altrettanto unico ma meno fortunato dal punto di vista vocale era il Donner di Ralf Lukas). Insufficiente il Froh di Willem van der Hayden, e invece adeguato quello di Marcel Reijans. Friedemann Röhlig e Bjarni Thor Kristinsson erano due giganti molto corretti ma impallidivano davanti alla coppia vincente di Ain Anger e Ante Jerkunica. Nadine Weissmann (Erda e Flosshilde) era interessante, ma meno di Ewa Podlès (un'Erda veramente contralto anche se con molte tensioni in zona acuta) e non molto superiore come Flossihlde a Inés Moraleda. Le altre ondine erano Lisette Bolle e Maria Hinojosa, entrambe brave. Freia è un ruolo ingrato per i soprani ma, sempre a livelli accettabili, Sonia Gornik era meno ‘brillante' di Erika Wueschner. Resta Loge, a conti fatti il personaggio più interessante (personalmente direi anche ‘positivo' ma so di destare probabilmente qualche perplessità).
Francisco Vas usciva dal suo anteriore Mime e lo faceva bene in tutti i sensi, ma si tratta sempre di un caratterista e venire messo in ombra da Mine non è certo la migliore delle soluzioni. Kurt Streit invece, pur essendo un ‘lirico' (e tale restando) offriva una prestazione praticamente ideale, diventando non solo il vero centro d'interesse della serata ma dimostrando quanto fruttino – non solo a un cantante lirico – l'onestà e la responsabilità nelle scelte (non sempre facile per uno come lui che forse potrebbe aver puntato a una carriera più ‘spettacolare') e lo studio e l'amore per gli autori e la musica. Quando – ormai parecchi anni fa – l'ascoltai per la prima volta nel suo molto azzeccato Cassio verdiano non avrei creduto mai di vederlo e sentirlo così spesso e così a lungo in ruolo diversissimi, difficili e per un certo verso ‘ingrati'e quasi sempre sugli scudi. Scrivo questo con immensa ammirazione e gratitudine: se solo ci fossero più artisti – e non – come il signore Streit le cose andrebbero per il loro vero – e migliore – verso. L'anno prossimo la seconda puntata.
Jorge Binaghi
5/5/2013
Le foto del servizio sono di Antonio Bofill.
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