RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Barcellona

L'ultimo romano

La versione in forma di concerto di Rienzi costituisce la chiusura della celebrazione dei duecento anni della nascita di Wagner al Gran Teatre del Liceu. Inaugurata la stagione con grande pompa e la visita del Festival di Bayreuth, accolta con grande successo, questa fine risulta non solo più modesta ma anche un po' malinconica.

Il titolo è senz'altro importante (piaccia o meno riconoscerlo così ai wagneriani più accaniti) ma anche ‘sbilanciato', fuori di proporzioni e norme (e i tagli più o meno canonici e il fatto che la partitura sia sparita insieme a Hitler – un peccato, sí, ma ne valeva la pena – non ci aiuteranno mai ad arrivare a una valutazione più o meno serena e oggettiva.

Questa volta sembrava più che mai mancante di una continuità e perfino di una qualsiasi strutturata ‘grazie' alla concertazione di Pablo González, titolare dell'Orchestra Sinfonica di Barcellona e Catalogna (forse la più brava nel territorio) che, al suo solito, batte la misura e la cassa e per il resto pare impermeabile. Una parte del pubblico lo contestava alla fine e il maestro si mostrava sorpreso… Il coro del Teatro, ottimamente preparato da José Luis Basso, si mostrava in forma splendida e veniva anche rinforzato dalla brava compagine Polifonica di Puig-Reig (diretta da Ramón Noguera).

I solisti sono anche una difficoltà in più. Dei tre principali solo il mezzosoprano Michelle Breedt (nel ruolo travestito di Adriano) si mostrava all'altezza della parte: estensione, bel colore, stile, espressività. Anche il basso Peter Rose otteneva un giusto successo, ma la parte di Colonna non è quella in cui può brillare di più e, visto che sparisce alla fine del secondo atto, non so se vada considerato quarto protagonista. Alex Sanmartí (che dovrebbe fare più attenzione a quelle terribili occhiate, per di più in un concerto), baritono come Werner Van Mechelen (un bravo cantante ma non si sa chi abbia sentito il bisogno di chiamarlo per un ruolo come quello di Cecco) che dovrebbe curare la sua gestualità, e Josep Fadó, tenore, erano dei comprimari lodevoli (Orsini, Cecco del Vecchio e Baroncelli rispettivamente).

I brevi ma importanti interventi ‘religiosi' di Friedemann Röhlig (sta diventando uno specialista) erano assai corretti ma senza l'impatto (vocale intendo) che dovrebbero avere. La parte d'Irene è tra quelle più pesanti, difficili e ingrate, ma certo cantarla a squarciagola come ha fatto il soprano portoghese Elisabete Matos non la rendeva più facile o amabile. Il protagonista di Kristian Benedikt (al posto di un Christian Franz di cui si è perduta la traccia senza più novella) era apprezzabile, ma la voce non corre bene (non si tratta solo di un problema di volume, ma soprattutto di proiezione), il grave è insufficiente, ogni attacco che non sia un forte (gli acuti sono l'elemento più sicuro del suo canto ma quando si legge il repertorio che canta vengono i brividi) è oscillante o precario (l'inizio della grande aria dell'ultimo atto n'era una prova chiarissima). Un pubblico che non riempiva il Liceu applaudiva con più cortesia che vero calore. A ragione.

Jorge Binaghi

10/7/2013