Il panettone di Rigoletto
Se esistono i film-panettone di Natale, non ci sarà nulla di male se pure il teatro d'opera – che prima dell'avvento del cinema era il genere popolare per eccellenza – sfodera le sue produzioni-panettone. Ecco dunque il Carlo Felice di Genova proporre un Rigoletto che non è nulla di più, ma neppure nulla di meno, che un regalo di Natale: poche prove ma nomi illustri, un direttore di esperienza sinfonica ma quasi vergine nel repertorio operistico, spettacolo vecchio (non solo perché già visto quattro anni fa, ma proprio come impianto) nella convinzione che, almeno sotto l'albero, nel Verdi più popolare contano le voci. E sebbene l'idea di fare un regalo al quadrato, ossia alternare nel corso delle repliche il più grande Rigoletto di ieri sera (Leo Nucci) e il più grande Rigoletto di oggi (Carlos Alvarez) sia venuta meno per un'indisposizione di quest'ultimo, il teatro genovese, nella prima delle tre recite che avrebbe dovuto sostenere il baritono spagnolo, ha ovviato sostituendo il cinquantenne Carlos proprio con il settantacinquenne Leo. Dunque, l'antivigilia di Natale il veterano Nucci tornava al Carlo Felice con un cast differente (guest star il tenore Celso Albelo) da quello con cui si era esibito poche sere prima: ripresentandosi più divertito che affaticato, concentrato sulle residue riserve vocali ma generoso come sempre.
Il culto dei “mostri” – e il feticismo per i cantanti con oltre mezzo secolo di palcoscenico ne è una tipica estrinsecazione – ha fatto più male che bene al teatro lirico: ma, al contrario di altri baritoni (o tenori trasformati in baritoni) che in questi ultimi tempi si sono esibiti abbondantemente ultrasettantenni, Nucci continua a mettersi in gioco sera dopo sera con schietta etica di artista, senza confidare sull'impunità derivante dalla gloria del passato. Poi, certo (e a fronte di un volume sempre rispettabilissimo), la voce suona spesso inaridita, a tratti anche corrosa: se la capacità di “piazzare” la singola nota resta infallibile, viene meno la fluidità del transito da una nota all'altra. Il “legato” è, appunto, l'aspetto più compromesso nella vocalità del Nucci di oggi: e questo, inevitabilmente, pregiudica la resa di momenti come Veglia, o donna e Piangi, fanciulla.
Sta di fatto, però, che Rigoletto ha anche – anzi, soprattutto – momenti di canto tagliente e declamatorio: e qui hanno buon gioco l'arte della parola scenica di Nucci, la sua lunghissima militanza in questo ruolo, la capacità di rivoltarlo come un guanto. Ne sortisce un'incarnazione più scabra che commovente, più incline agli impulsi negativi del personaggio che ai suoi conati di dolcezza: per sopravvenuti limiti canori ma pure per precisa opzione interpretativa. Almeno laddove il recitar cantando deve avere il sopravvento sul canto puro (cosa che nel primo e nell'ultimo quadro accade spesso) Nucci convince come ai vecchi tempi. E il suo Sì, vendetta – generosamente bissato, sebbene nel bis la voce si opacizzi un po' – rende davvero l'idea di una cavalcata a precipizio verso il male.
Una relativa delusione proviene, piuttosto, da Albelo: un tenore che, in Italia, non è approdato ai successi che miete altrove e neppure questa recita genovese potrebbe ratificare. Il suo Duca è spavaldo nel registro superiore, ma generico del fraseggio; il suono tende a restringersi in basso, a spia di un'emissione perfettibile; né lo squillo adamantino lo mette al riparo da un brutto suono quando, al termine di Possente amor mi chiama, azzarda un Re sopracuto. E sia detto senza acribia vociologica, ma solo perché certe puntature – se un cantante decide di tentarle – si fanno per essere notate.
Visto che neppure la bacchetta di Dorian Wilson è apparsa irreprensibile (nel primo quadro non sono mancati scollamenti tra buca e palcoscenico), e detto che Rolando Panerai come regista non ha la personalità che mostrava nell'affrontare Rigoletto da baritono, il vero punto di forza – contro ogni previsione sulla carta – è stata Sophie Gordeladze. Ultimo anello di una catena di soprani georgiani che sta rivelandosi assai fertile, ha plasmato una Gilda di notevole intensità drammatica, senza tentazioni da usignolo meccanico (ma il suo Caro nome non presentava la minima sbavatura sul fronte virtuosistico) e tutt'altro che cristallizzata nel bozzolo fanciullesco del personaggio.
Il resto è alterno: si notano una debole Maddalena (Kamelia Kader) a fronte di uno Sparafucile sonoro e robusto (Mihailo Šljvic), un Monterone ben cantato ma fioco rispetto ai desiderata del ruolo (Stefano Rinaldi Miliani) e un paio di sapidi caratteristi (Claudio Ottino restituisce i rimasugli di umanità di Marullo, Aldo Orsolini è un Borsa pettegolo e impiccione comme il faut). Insomma alta pasticceria no, ma cucina di mestiere sì: per un Rigoletto-panettone gli ingredienti sono giusti.
Paolo Patrizi
27/12/2017
La foto del servizio è di Marcello Orselli.
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