Rita Botto e la Banda di Avola all'Associazione Musicale Etnea
Una Rivoluzione Rosa… col Botto
Galeotto parrebbe essere stato Giovanni Di Maria, fervido e umanissimo intellettuale avolese oltre che saggista e documentarista nonché inventore della “Notte di Giufà”, quel festival multiforme che riesce ad animare il mondo della cultura dal suo luogo di origine, Noto, dove nasceva a metà degli Anni Novanta. Fu Di Maria, infatti, nell'estate del 2012, a farsi pronubo tra Rita Botto – voce, corpo, anima e “ricercattrice” di tradizioni musicali e musica tout court – e la Banda di Avola diretta da Sebastiano Bell'Arte. Fu amore a prima nota e fu matrimonio a molte note, «cu stu beddu picciotto di quarant'anni e cinquanta figghi… tutti ni n'a vota», illustrava – sardonica e giniusa – Donna Rita dal palcoscenico del Teatro Odeon di Catania per l'affollato, applauditissimo concerto voluto dall'Associazione Musicale Etnea per il suo cartellone “Riflessioni”.
E cinquantuno, in effetti, sono i “figli” della Banda di Avola A.L.MUS (Avola Laboratorio Musicale), nata quasi vent'anni fa per iniziativa del maestro Bell'Arte che intendeva così ricostruire la gloriosa Banda di Avola già in vita, pare, in epoca borbonica. Dunque 51 “prof” tra sezione di flauti, clarinetti, sax (tra cui spicca il sax soprano di Carlo Cattano) trombe, tromboni, corni, eufoni, tube, tamburo, piatti, grancassa. Non senza un ospite d'onore – in pieno concerto – quasi un Ariel terragno, Puccio Castrogiovanni, capace come pochi o come nessuno, forse, di restituire al marranzano la sua dimensione esoterica ed epica, annullando in un nanosecondo il becerume, gli (ab)usi e (s)costumi di certa cinematografia “folcloristica” al di là e al di qua dell'ultima guerra.
Ma la parabola artistica di Rita Botto – classe 1957, catanese fino al midollo ma per sua (e nostra) fortuna ben svezzata e soprattutto compresa davvero dall'acuta e generosa Bologna dove ha insegnato e ha studiato, ha cantato e ha ricercato – la sua parabola artistica, dunque, va oltre l'intuizione peraltro felicissima di “coniugarla” a un brillante complesso bandistico che non perde d'occhio la tradizione ma che non può né vuole fare a meno di un'accortezza acustica tutta contemporanea. Il percorso della Botto comincia, infatti, da lontano e da luoghi musicali apparentemente “fuori” dall'Isola a tre punte – blues, jazz, world music – per fermarsi (approdare non è termine che s'attaglia alla sua sana, confortante irrequietezza estetica) dinanzi a una scommessa. O a una sfida. O a un teorema. Ovvero la rivoluzionaria e pirandelliana possibilità di un “innesto”: metti il sofisticato, appassionato e chissà quanto lontano jazz a temperatura variabile (non più hot ma neanche troppo cool) nella chissà quanto vicina “pianta” della tradizione musicale siciliana.
Si può. Eccome se si può. Per certi versi sembra un'impresa strepitosa, urgente, irrinunciabile come quella che fece storia e la storia di Pino Daniele. Ma se nel caso del poeta di Napul'è l'“innesto” riguarda essenzialmente la lingua, la parola cantata, mentre la “pianta” è scrittura musicale originale e nuova che dell'ingombrante “passato” partenopeo può tenere o non tenere conto – nel caso di Rita Botto l'operazione si prospetta un tantino più rischiosa perché minaccia (e promette!) di sdoganare un folk ricoperto d'una muffa che non gli appartiene. Il “ritorno alle origini” è pericoloso e non poco: non ci vuol nulla perché la tradizione diventi tradimento o, peggio, che certa archeologia di maniera prenda il sopravvento sull'antico che per definizione ed essenza è moderno e senza tempo.
Ebbene, la Botto compie l'“innesto” passando per una via d'accesso assolutamente unica, irripetuta e irripetibile: la “Rivoluzione Rosa”. La folgorazione per quell'aedo-donna, un meteorite d'arte tuttora indefinibile che fu Rosa Balistreri – casualmente nata a Licata ma regina di una musicalissima Terra di Mezzo poco esplorata e misconosciuta – non è stata e non è, per la Botto, il soffio di vento necessario per un album o un ciclo di concerti. Nossignore. È piuttosto la cifra mobilissima, classica e d'avanguardia a un tempo, alla quale “intonarsi” a proprio modo. Perciò quella Terra ca nun senti non è solo il titolo principe che campeggiò, all'epoca, sulle copertine dei mitici Dischi del Sole (sotto la spinta autorevole di Roberto Leydi, Giovanna Marini e gli altri) ma è humus sterminato per ogni sorta di “innesti” secondari.
E Terra ca nun senti – che è anche la nuovissima creatura discografica realizzata da Rita Botto e la Banda di Sebastiano Bell'Arte insieme a Ninnaò, personalissima antologia di ninnananne siciliane – ha occupato in lungo e in largo il concerto dell'Associazione Musicale Etnea. Non senza un'ouverture tutta strumentale della Banda di Avola (Don Nuzzo, Tarantella n.8, Galop) dalle sonorità rotonde, pulite, in sano e comprensibile odore di Rota/Piovani, seppure legatissime alla più alta tradizione. La Banda di Avola – il suo direttore in testa – non possono fare a meno di respirare il proprio tempo, tra disincanto contemporaneo e fiati struggenti come da commossa memoria musicale. Poi, da un ipotetico sipario e armata di un'immaginaria tavola di cantastorie, ecco Donna Rita. Cantu e cuntu. Praticamente un manifesto. Dolente, rabbioso, intransigente e sacrale a cui la Banda conferisce una pienezza insistente, perché no, financo superiore all'orchestra “canonica” e giusto un attimo prima che Rita “la cannunera” cominci a caricare con il suo Fatti li fatti tò. È un inedito di riconoscibile filiazione Balistreri che, con tinte di pastoso mezzosoprano, lei trasforma in un siciliano song alla Brecht-Weill che non a caso tocca piccoli vertici espressionisti alla Raffaele Viviani. E dopo l'ammiccamento di Me mugghieri unn'avi pila («…pi lavari!», chiosa, saputa e beffarda, la Botto) ecco il sogno erotico e impavido (p'a ttìa la bedda porta spurtusari: non occorre insistere sulla valenza metaforica e segnatamente sessuale del piccolo “trapano” d'antan e della “porta”) di ‘A virrinedda : la Botto se la porta dietro con garbata e intensa coscienza del palcoscenico che attraversa ironica e leggera e sempre devota alla personalità dell'ensemble alle sue spalle.
L'ingresso di Castrogiovanni (O cori di ‘stu cori') è sommesso e carismatico, d'imponente, sbalorditivo cromatismo in cui il marranzano, da solo, riporta all'orecchio della mente le sonorità orchestrali dei tamburi di Alfio Antico. È l'annuncio – questo – più solenne e viscerale per Terra ca nun senti che ha colori e calori da wedding & funeral band: nulla di più infernalmente attuale oggi e nulla di più scomodo ai tempi in cui imperversava il canterino tonchiritichitònchiti'. In Mamma vi l'haiu persu lu rispettu – sfrontata cronaca al femminile della fuitina che rammentiamo bene nei toni pietrosi e armonicissimi della Balistreri – non si trova meno spirito d'insubordinazione grazie alla veemenza vocale di Rita Botto, “insubordinata” anche nella sofisticata scelta d'abbigliarsi en robe noire.
Mi votu e mi rivotu. Fu un detenuto a scriverla? Crollano allora le ipotesi romantiche dinanzi a quel capolavoro immenso che pure fece sghignazzare non pochi beoti televisivi di “Canzonissima” (Terra ca nun senti non fu neanche ammessa in gara), quasi tragicomica nei fiati e sapiente nella chiusura dei tromboni. Cu ti lu dissi è un must nonché cavallo di battaglia delle due “RB” mentre “E vegnu appress'a ttia comu lu cacciaturi cu' la quagghia” (Amuri amuri) scopre un incipit da canto sardo. Signuruzzu chiuvìti chiuvìti … e i bis piovono copiosi su «arbulicchi» i quali, tuttaltro che «morti di siti», sono spettatori plaudenti e spettatrici forsennatamente animate da una sorellanza che produrrà ninnananne e ancora virrinedde. La “Rivoluzione Rosa” è stata dirompente ed è tuttora immensa, imprevedibile, enciclopedica. Pure, Rita Botto non è un'epigona della Balistreri né una sua ambasciatrice. Lei cammina sul suo solco (non microsolco, nessun inchino alla filologia più pedante) per suo conto. E per suo canto.
Carmelita Celi
6/3/2013
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