Innsbrucker Festwochen: 450 anni di Claudio Monteverdi
Il ritorno di Ulisse in patria
Opera controversa Il ritorno di Ulisse in patria, dalla paternità in passato contestata, anche se l'attribuzione al genio di Claudio Monteverdi è ormai fuori discussione. Anche la presunta inferiorità rispetto all'Orfeo e all'Incoronazione di Poppea non trovano riscontro di fronte alla qualità di molte pagine, fra le più alte vergate dal compositore cremonese. Scegliendo proprio questo titolo per celebrare i quattrocentocinquanta anni dalla nascita del musicista nell'ambito del Festival di Musica Antica di Innsbruck, Alessandro De Marchi sembra voler ribadire senza ombra di dubbio la forza e la modernità di quest'opera. Nell'Ulisse la varietà del sentire umano si traduce in un'estrema cura riservata alla vocalità dei singoli personaggi. Non solo ognuno rivela un proprio modo peculiare di esprimersi, dallo stile aulico delle divinità a quello terreno dei servitori, ma nei momenti più alti l'invenzione musicale tratteggia con efficacia inusitata gli sbalzi di umore e i diversi stati d'animo che agitano i protagonisti. Si pensi al monologo iniziale di Ulisse, al suo risveglio le cui immagini si mescolano ancora con quelle di un sonno imparentato con la morte, al subitaneo imporsi della situazione reale, all'invettiva contro i Feaci del cui inganno è vittima l'eroe. I sentimenti, più che gli eventi meravigliosi, acquistano un rilievo senza precedenti. Con grande sensibilità drammaturgica, Monteverdi costruisce ampie architetture nelle quali la musica si dispiega con estrema ricchezza, seguendo sempre le esigenze del testo. Infine l'audace convivenza di serio e faceto, di tragico e comico, rivela una profondità sorprendente, vicina per molti versi all'universo shakespeariano. Nell'intento di sfuggire ogni rischio di monotona seriosità, De Marchi elabora il basso continuo con ricchezza e varietà ammirevoli, premette allo spettacolo una Sinfonia di Cavalli, apporta alcuni tagli per snellire la condotta narrativa, inserisce un estratto dal Lamento della Ninfa in sostituzione di una scena presente nel libretto ma non nell'unico manoscritto ad oggi rinvenuto, e ancora fornisce al pubblico l'occasione di ascoltare Zefiro torna all'interno del terzo atto, entrambe vette della produzione monteverdiana. Del resto molti passaggi dell'Ulisse rimandano all'esperienza madrigalistica del compositore, rivisitata con accenti nuovi, di rara freschezza. La parte di Telemaco viene infine affidata a un controtenore, evitando quella preponderanza tenorile che già René Jacobs aveva stigmatizzato, differenziando in tale maniera i caratteri del padre e del figlio. Il tutto si traduce in una teatralità travolgente e fantasiosa, del tutto priva di cedimenti. La direzione di De Marchi, alla guida dell'impeccabile ensemble Academia Montis Regalis, è percorsa da una pulsazione continua, agitata da fremiti vitali mantenendosi comunque ariosa ed elegante.
Lo spettacolo, una coproduzione con Den Norske Opera di Oslo, mira eludere l'aura mitica della vicenda spostando in gran parte l'accento sul versante ludico. Una scena unica ospita la vicenda, alla quale un secondo sipario, una sorta di teatrino inserito nel fondo, garantisce quell'apertura più ampia che le peregrinazioni e le vicissitudini dell'eroe omerico certamente meritano. Abbigliata come una improbabile sposa, Penelope sembra essere stata appena abbandonata da Ulisse. Siede al centro di quella che appare come una strana sala da banchetti, con cassettiere che appaiono più adatte ad un ufficio, quadri alle pareti che raffigurano transatlantici allusivi del tema marino. Camerieri alati impersonano gli Dei, pronti a intervenire nelle vicende umane. Il regista Ole Anders Tandberg vede Monteverdi più come un precursore del buffo rossiniano che non come l'iniziatore del teatro d'opera tout court. Ne risulta uno spettacolo spassoso, carico di ritmo teatrale, solo a volte eccessivamente sbilanciato su un unico versante espressivo. La tragicità di Penelope, peraltro impersonata da una bravissima Christine Rice, viene ad esempio smussata dal suo apparire in un abito da sposa, neppure esteticamente troppo bello. Per accentuare la solitudine della regina tormentata e il suo lutto inconsolabile, il regista rende le effusioni amorose fra Melanto ed Eurimaco sessualmente fin troppo esplicite. La fragilità di Telemaco viene poi sottolineata, oltre che dal registro vocale scelto per il personaggio, anche dal suo abbigliamento da adolescente complessato e insicuro. Il sangue nel quale annegano i Proci è solo ketchup, come nella più consumata tradizione filmica. Innumerevoli le trovate, quasi tutte riuscite, delle quali è disseminato lo spettacolo. Minerva, apparsa a Ulisse in vesti di pastorello, indossa un costume tirolese che non potrebbe essere più adatto all'occasione. Alla Dea vengono riservati i travestimenti più fantasiosi; mentre intona “gli Dei possenti navigan l'aure, solcano i venti”, appare ironicamente vestita come una hostess circondata da bagagli, mentre nella celebre scena della vendetta si mostra in vesti da schermitrice. La lotta fra Iro e Ulisse diviene un divertente incontro di boxe, anche se l'idea pare mutuata dal celebre allestimento di Ponnelle, dove il tutto appariva come una lotta di catch. Addirittura esilarante la scena in cui i Proci cercano di rompere il gelo che circonda Penelope, danzando vestiti da marinai con l'ausilio di una gamba finta. Nel complesso lo spettacolo, pur sacrificando alcuni momenti di commozione nel turbine della commedia, è perfettamente godibile e teatralmente efficace.
Ottimo il cast. Come accennavamo sopra, Christine Rice è una Penelope perfetta dal punto di vista vocale, rassegnata al dolore ma anche pervasa da una grande nobiltà. Bravissimo Kresimir Spicer nei panni di Ulisse, al quale infonde una inesauribile vitalità. Buono anche il Telemaco di David Hansen, anche se afflitto da problemi di dizione. Eccellente il terzetto dei Proci, Marcell Bakonyi (Antinoo), Hagen Matzeit (Pisandro) e Francesco Castoro (Anfinomo). Carlo Allemano rende indimenticabile la parte di Iro, ruolo nel quale Monteverdi sembra guardare avanti, addirittura fino al Falstaff verdiano. Il parassita spodestato, costantemente affamato, disperato per aver perduto la propria fonte di sostentamento, viene reso con una varietà di accenti ammirevole. Il monologo comico diviene una sorta di delirio che, condotto gradualmente al parossimo, porta Iro a porre fine alla propria esistenza. Bravi anche Vidgis Unsgärd e Petter Moen nei panni rispettivamente di Melanto e Eurimaco, la coppia di amanti che costituisce il contrappunto ideale alla freddezza della regina. Ottimo anche Jeffrey Francis nel ruolo di Eumete, così come Ingebjørg Kosmo quale Ericlea. Bravi tutti gli altri.
Il pubblico ha dimostrato di apprezzare il punto di vista ludico scelto dal regista, tributando una vera ovazione agli interpreti, ai musicisti e al direttore, richiamati più volte al proscenio.
Riccardo Cenci
27/8/2017
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