Tra presente e passato
Roberto Abbado
Il programma del ventesimo appuntamento della stagione con l'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) all'Auditorium RAI Arturo Toscanini, sotto la direzione di Roberto Abbado, è stato una sorta di viaggio nel tempo tra presente e passato: il presente dei giorni nostri e il passato dei brani, ma anche il presente del compositore all'epoca della stesura e il passato prima di lui. Partiamo dunque per questo viaggio. La prima tappa è stata Rendering, curioso caso di “performing version” degli schizzi della Decima Sinfonia di Schubert da parte di Luciano Berio. L'operazione, datata 1989/90, integra ciò che rimane della sinfonia (frammenti del primo e del secondo movimento) con un esercizio di contrappunto rinvenuto sullo stesso manoscritto, sempre di mano di Schubert (esercizio, a quanto pare, indipendente), il tutto raccordato da interventi di mano di Berio, che si rifà ad altre composizioni schubertiane dello stesso periodo, gli anni 1827/28 (Sonata per pianoforte in si bemolle maggiore D 960 e Trio per violino, violoncello e pianoforte n.1 in si bemolle maggiore Op. 99 D 898), pur evidenziando la presenza di una mano esterna, segnalata dall'intervento della celesta ogni qualvolta il tessuto orchestrale si strappa mostrando le “toppe” di Berio. La celesta, col suo timbro traslucido, esterno ad un'orchestrazione primo-ottocentesca (fu inventata nel 1886 in Francia e il primo uso riconosciuto è quello che ne fa Cajkovskij nello Schiaccianoci, 1892) garantisce un colore tutto particolare alla composizione, garantendo un clima di estraniazione rispetto alla mano schubertiana, e la sua importanza è tale, da venir posta, in concerto, di fronte al podio di Abbado, e non di lato, come accade di solito. Si avverte distintamente il passaggio da un autore all'altro: Schubert più terso, nitido, Berio più nebuloso: i suoi interventi di cucitura riflettono il caos informe di quegli schizzi che, letti da parte di un musicista, ingenerano nella sua testa un insieme di suoni aggrovigliati e confusi, come i tratti d'inchiostro sulla carta che nascondono qualcosa d'indecifrabile, se non agli occhi del compositore stesso. L'Allegro d'apertura mostra uno Schubert molto classicista, ancora vicino al modello delle sue prime sinfonie, ben distante dai turgori romantici dell' Incompiuta, e così Abbado ce lo mostra, con una direzione misurata e precisa. Nell'Andante, per lo meno nelle parti schubertiane, rileviamo una certa espressività innodica; bravi Enrico Maria Baroni e Carlo Romani rispettivamente impegnati nei soli di clarinetto e oboe, cui Schubert affida principalmente i temi cantabili. Degli interventi di Berio, Abbado cerca di cogliere il lato sfuggente, che ricorda i violini gelidi e impalpabili di certi passaggi dell' Angelo di fuoco di Prokof'ev. Nel canone si apprezza una buona calibrazione dei volumi sonori, con evidenziazione dei vari ingressi del soggetto, affidati per lo più al corno; il trattamento generale sembra quello che riserva di solito ai fugati finali della musica sacra.
Maria João Pires
Se Schubert è il passato ripensato dal presente (Berio), Beethoven, con il Secondo Concerto per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore Op. 19, è il presente (per lo meno il “suo” presente, di quando, nel 1798, aveva 28 anni) che ripensa il passato, ovvero il modello mozartiano di concerto. Maria João Pires, pianista d'innegabile classe, ci omaggia di un'esecuzione che punta dritto a quanto di apollineo c'è in Beethoven, senza eccessive enfasi romantiche (un'interpretazione più “maschia”, più “beethoveniana” nel senso corrente del termine, è per esempio quella di Krystian Zimerman). Al di là delle preferenze personali, vi sono tesi che possono far propendere per le scelte stilistiche della Pires. Anzi tutto, pur se pubblicato dopo il Primo Concerto Op. 15, il Secondo è in realtà il primo in ordine di composizione: siamo di fronte al primo tentativo compiuto di concerto per pianoforte e orchestra (volendo escludere il “concerto n.0”, il Concerto per pianoforte e orchestra in mi bemolle maggiore WoO 4, scritto nel 1784 a 13 anni), quando Beethoven, forte della tecnica pianistica imparata da Clementi, riceve “dalle mani di Haydn lo spirito di Mozart”, citando le parole del conte Waldstein (sì, lui, lo stesso fortunato dedicatario della futura Sonata Op. 53). Gli stilemi della maturità mozartiana ci sono tutti: l'ingresso del solista con un'idea indipendente da quelle dell'orchestra, come nei Concerti K 465 e 466, cosa che evita la doppia esposizione, le cadenze d'obbligo, una romanza centrale e un vivace rondò conclusivo. Beethoven vede quindi in Mozart, almeno per ora, un modello da imitare, anche se non pedissequamente: un modello da portare avanti fino alla massima espressività possibile, prima di cambiare rotta (cosa che avverrà definitivamente nel 1800 con il Terzo Concerto Op. 37): quindi, perché non interpretarlo come lo avrebbe interpretato Mozart? Secondo punto: Beethoven avrebbe conosciuto il pianoforte Érard solo nel 1806: fino alla stesura del Terzo Concerto, utilizzò pianoforti non molto diversi da quelli di Mozart: è una questione di filologia musicale da non sottovalutare, perché, se si vuole capire che cosa un musicista aveva in testa, bisogna anche sapere su quale tipo di strumenti provava le sue composizioni. La stessa domanda, all'inverso, la si sente fare spesso oggigiorno: che cosa avrebbe composto Beethoven se avesse avuto a disposizione un sintetizzatore? Plauso perciò alla Pires, che ci restituisce un Beethoven molto mozartiano, con colori pianistici non molto contrastanti tra il piano e il forte – a parte la notevole eccezione, in quanto a dinamiche scolpite, per la cadenza originale di Beethoven, datata 1809 (posteriore, quindi, di quasi quindici anni), lo stesso anno dell'Imperatore – e plauso ad Abbado, che preferisce risparmiare le forze orchestrali, impiegando solo due contrabbassi e un numero proporzionale di archi, in funzione anche dei pochissimi fiati richiesti: flauto, due oboi, due fagotti e due corni: una tipica orchestra settecentesca. Delicatissimo e sognante il finale del secondo movimento: quasi come se non volesse lasciare il pubblico, le ultime note arrivano ritenute e soffici, sulla nuvola impalpabile degli archi. Gli applausi a fine concerto fanno sì che ella suoni ancora L'uccello profeta (Vogel als Prophet), settimo brano delle Waldszenen (Scene della foresta) Op. 82 di Schumann, dove il frequente ricorso all'intervallo di quarta aumentata (o “quarta slava”) ci ha ricordato, anche per l'intenso spleen dell'esecuzione, la malinconia di una mazurca chopiniana.
Terzo e ultimo brano in programma, con giustificato ampliamento di organico, la Sinfonia n.5 in re maggiore Op. 107 di Felix Mendelssohn-Bartholdy, quinta ed ultima del catalogo a causa di uno spostamento dovuto alla riscoperta tarda della partitura, in realtà seconda in ordine cronologico (la Prima è del 1824, la Quinta del 1830-32, la Seconda del 1840). Ancora una volta, il presente contemporaneo di Mendelssohn volge uno sguardo al passato, in questo caso ad un importante evento del culto protestante (non a caso la sinfonia è nota come La Riforma): il trecentesimo anniversario della Confessione di Augusta. La sinfonia è infatti un concentrato di citazioni del repertorio sacro: il primo movimento cita l'Amen di Dresda, formula di sei note composta a inizio Ottocento da Johann Gottlieb Naumann per la comunità luterana di Dresda (da cui il nome) e sfruttata, oltre che da Mendelssohn, da altri compositori prima e dopo di lui (Wagner, per esempio lo utilizzerà nel Parsifal, dove diventerà il Leitmotiv del Graal); l'ultimo, invece, è costruito sul corale Ein feste Burg ist unser Gott (Il nostro Dio è una fortezza sicura).
L'interpretazione del primo movimento presentata da Roberto Abbado trova il suo punto di forza nelle dinamiche ben dosate delle varie famiglie di strumenti: in grazia di ciò, il discorso melodico rimane evidente (ed evidenziato) lungo tutta l'esecuzione; di tanto in tanto, tuttavia, viene a mancare il fuoco richiesto dal compositore nell'indicazione agogica (si tratta di un brano che, in quanto ad irruenza interpretativa, dovrebbe fare il paio con l'Ouverture della Erste Valpurgisnacht Op. 60, sempre di Mendelssohn, anch'essa indicata Allegro con fuoco). Simile appunto si può rivolgere al secondo movimento, la cui sonorità anticipa già il clima sereno della Quarta Sinfonia Op. 90, (Italiana): al di là della velocità adottata, adeguata al brano e perfettamente inserita nel solco di una tradizione consolidata, dovrebbe avere l'andamento disteso di un Ländler, e suona invece a tratti pesante e trascinato. Il livello interpretativo cresce nell'Andante, il cui raccoglimento intimo rammenta il Solenne della Renana di Schumann, e prosegue ancor meglio nel finale: lo slancio dell'orchestra si staglia sicuro nella sala dell'Auditorium, ed il severo fugato, che funge da ponte verso la conclusione, ricorda il trattamento polifonico del coro Ich hatte viel Bekümmernis dell'omonima cantata BWV 21 di Bach. Così, dall'oscurità del primo movimento si perviene alla luce dell'ultimo, un percorso in ascesa parallelo a quello della fede umana sotto la spinta riformatrice di Lutero.
Christian Speranza
13/5/2014
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