RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

La voce della luna a Roccella Jonica

Dave Holland.

Mingus in the air. Come love is in the air.

E' già da un po', in effetti, che (a parte l'onnipresenza artistica che lo fa eterno cittadino dell'etere) l'immenso Charlie Mingus – quintessenza del contrabbasso e di molto altro, jazz e dintorni – è nell'aria, in Italia specialmente, con l'uscita di Mingus secondo Mingus, una sorta di notebook personale dell'artista ricomposto da John F. Goodman. Quasi cinquecento pagine (editi dalla Minimum Fax) di parole e pensieri del grande, singolarissimo pensatore di jazz che diceva di stare “dalla parte di coloro che hanno scritto la musica che ci ha portato sulla luna”.

Perciò è stata quasi una doppia presenza, quella di Mingus – ed una doppia testimonianza – se sommata alla “voce della luna” ed al talento multiforme e indiscusso del contrabbassista inglese Dave Holland (1946), presenza autorevolissima ad aprire la XXXV edizione di Roccella Jazz International Festival Rumori Mediterranei, la seconda con la direzione artistica di Paola Pinchera e Vincenzo Staiano. Quest'anno, a causa di una “dieta” finanziaria (“la solita storia del pastore” di contributi giunti con ritardi biblici) il Festival si è concentrato su due grandi serate di musica - ieri la prima, la seconda ed ultima stasera con Sun Ra Arkestra e Iberjazz; in autunno inoltrato, la seconda porzione di appuntamenti. Ma, ciò detto, e malgré tout, tutto è stato conservato in termini di qualità, misura, varietà di proposte culturali. Roccella Jazz Fest non ha perduto nulla della sua identità e ha issato alta, come sempre, la bandiera di grande, imperdibile meticciato culturale. “Abre lo que separa un mundo de otro”, (de)cantava Sofia Rei, band leader argentina (in concerto, ieri, dopo Dave Holland) dichiarando senza infingimenti il primo comandamento (forse l'unico) del jazz come autentica, ingombrante e salvifica Weltanschauung.

Ma torniamo a Mingus. E a Holland.

Il secondo, dunque, manda una “lettera” in musica al primo.

E' Goodbye, pork pie hat, un pezzo che lo stesso Mingus a sua volta aveva dedicato al grande Lester Young, “Theme for Lester” è anche titolato dai più. Ed è rapimento puro quando il contrabbassista e compositore inglese – già interlocutore dei grandi, in testa Miles Davis e Jack DeJohnette, e a sua volta fondatore di Circlee, l'ensemble che gli vide accanto Chick Corea e Antony Braxton – ne fa il cuore della sua performance, davvero lunare a tutti gli effetti, un solo di contrabbasso reso ancora più “tosto” dall'atmosfera rarefatta del Teatro al Castello, complice un pubblico copiosissimo e attento da far paura. Sollecitato in pizzicato o d'archetto, il contrabbasso diventa la sua mistress (come la musica lo era per Duke Ellington) con cui intonare, tra le altre cose, Mr PC”, altro pezzo illustre perché illustri sono il mittente – John Coltrane – e il destinatario, Paul Chambers.

Ma la serata è tanto nutriente e generosa da prevedere ben tre concerti – osannati tutti e tutti invitati al bis di rito nonostante luci e suoni si siano spente alle due del mattino e non un solo spettatore abbia abbandonato il Teatro.

Sofia Rei.

Il secondo in “scaletta” ha un titolo promettente, Besos de sangre, ma il gotico c'entra poco. Potrebbe entrarci, forse, in qualche misura, Federico Garcìa Lorca. Perché di bodas (ma a lieto fine) di “nozze” artistiche, in fondo, si tratterebbe: il Coro giovanile del Teatro Colòn di Buenos Aires sposa la Boston del jazz. E la “creatura” che ne viene fuori, sparsa la treccia morbida sull'affannoso omero sinistro, è una curiosa squaw del Terzo Millennio. Ma senza “riserve” d'alcun tipo. Musicali, specialmente.

Complice “el idioma de comunicaciòn de la noche ”, lo spagnolo, il suo spagnolo che odora fortemente d'Argentina, Sofia Rei si lancia in vocalese latinoamericano, s'addentra in sonorità ispanoarabe, a tratti indulge nel lamento del canto popolare ma non si nega un modernissimo, elettronico loop. Porteña, eccome, si reinventa un'identità apolide fuori dal tango, a tratti appare come una sorta di Enya di Rio de la Plata. Non si nega nulla e giustamente, con la profonda, accorta “leggerezza” di Italo Calvino, non ultima il suo promettente progetto con John Zorn (compositore, sassofonista, polistrumentista) con cui sta già dialogando per il “Book Three” di Masada, la saga musicale in cui Zorn indaga i suoi “debiti” musicali tra jazz e tradizione ebraica di cui lui è parte attiva.

Ma, come Neruda che ai truci conquistadores del Cinquecento era riconoscente perché tutto sommato avevano portato via l'oro ma gli avevano lasciato l'oro, la palabra, la lingua spagnola – Sofia Rei non nega lo sguardo alla terra madre, la Spagna aflamencada, a cui lei accenna con un momento ritmico di palmas (le mani a mo' di cantaor) e concede “sorellanza” a piene mani, al Messico di Frida Kahlo (e alla casa della pittrice s'ispira un suo brano) e a quello della Llorona e al Perù di Tamalito.

Si consegna al pubblico, Sofia, in un “Trio” fulminante e catturante, tanto diversi e necessari sono i due partner, l'uno di Guadalupe, l'altro colombiano. Alla sua sinistra, la parte più strettamente legata alla melodia e al canto strumentale - il bellissimo “rasta” JC Maillard, chitarra, saz basso e background vocal – alla sua destra, le percussioni forsennate e assennate di Tupac Mantilla che, a un certo punto, in una strabiliante dinamica di corpo-suono, duetterà con lei, in una song a cappella.

Chico Freeman.

La mano destra ha già imbracciato il sax mentre gira la sinistra per vedere che ora è. Mezzanotte, sissignore, l'ora dei maghi come Chico Freeman (il “bambino” Freeman, figlio d'arte, suo padre era Von Freeman) “gran sacerdote” di sax soprano e tenore e guru di un quartet che si compatta in un tributo: l'Elvin Jones Project. E dedicata a lui, infatti, al grandissimo batterista di Coltrane (ma anche “compagno di strada” di Sonny Rollins, Miles Davis, Mc Coy Tyner, Ornette Coleman), la perfomance del gigante Freeman (chico solo nella sua “giovanile” insofferenza alle “categorie” di genere) che di piccoli grandi giganti musicali ama circondarsi. In testa, l'italiano Antonio Faraò (pianoforte) capace d'improvvisazioni tanto blasonate da stupire il suo stesso band leader che lo presenta definendolo “black inside”, nero dentro (ah!, neanche i coloured sono immuni dai luoghi comuni modello “i neri hanno la musica nel sangue) a tratti preferisce addirittura “ammutolire” il suo sax. Eppoi il contrabbasso di Heiri Kaenzig e la batteria di Michael Baker.

Un Soft pedal blues (che sa tanto di Blue Lester) ed una nuova incisione, per Chico Freeman. Il titolo – in questi mala tempora – non può che curare o quantomeno regalare un nuovo sogno a Roccella Jazz Festival e ad ogni respiro culturale e creativo che Dio manda in terra: The beginning.

Carmelita Celi

23/8/2014

Le foto del servizio sono di Pino Passarelli.