Metafisica del Rosenkavalier
Ardite prospettive viennesi accolgono il Rosenkavalier visto al Teatro alla Scala, ripresa curata da Derek Gimpel di uno spettacolo a firma Harry Kupfer, coprodotto con il Festival di Salisburgo e andato in scena a Milano nel 2016. Proiezioni monocrome (i video sono di Thomas Reimer) a mostrare le architetture neoclassiche, le cupole e i tetti, le serre monumentali, gli esterni e gli interni dei grandi palazzi, che solo nel terzo atto si aprono a un acceso cromatismo per ospitare l'azione farsesca. La trasposizione epocale, dall'ambientazione settecentesca al primo Novecento, asseconda il carattere sostanzialmente astorico della commedia confezionata da Hofmannsthal e Richard Strauss, il suo collocarsi dalle parti del mito. Pochi gli elementi scenici predisposti da Hans Schavernoch, ma di assoluta pregnanza simbolica. Il grammofono, simulacro di un'eternità fittizia; l'enorme portale a materializzare una soglia, la distanza fra il dentro e il fuori, fra verità e artificio, fra il pubblico e le “sublimi marionette” che agiscono sulla scena; lo specchio ovale, il destino intangibile, l'eternità che non possiamo comprendere. Magnifico il finale primo con la figura della Marescialla la quale, dopo il monologo sull'inevitabile trascorrere del tempo, si staglia di spalle su una prospettiva di alberi spogli avvolta dalla nebbia. Lo sgomento dell'uomo di fronte al mistero dell'esistenza, espresso in maniera sublime da Hofmannsthal, non potrebbe trovare incarnazione migliore. Le luci di Juergen Hoffman immergono la vicenda in atmosfere declinanti, di freddo nitore. Di apprezzabile eleganza i costumi di Yan Tax, con la sola eccezione del vestito di pelle di Octavian, fuori contesto. Regia curata nei movimenti, mai volgare nella scena della locanda, solitamente luogo di eccessi. Nel finale il negretto viene sostituito da un ragazzo, nelle cui mani il fazzoletto perduto dalla Marescialla assume ben altre valenze erotiche. Spettacolo raffinato, allusivo, in linea con la concertazione adamantina di Kirill Petrenko. Il direttore russo naturalizzato austriaco, al suo debutto operistico al Piermarini, ha impresso il proprio inconfondibile sigillo all'esecuzione. Se il Rosenkavalier è opera dell'aurora e del tramonto, la lettura di Petrenko è totalmente votata alla luminosità apollinea più che alle incursioni crepuscolari. Ne scaturisce un affresco di straordinario nitore, nel quale ogni dettaglio della complessa partitura orchestrale risalta con cristallina purezza. Il virtuosismo sonoro non è mai fine a sé stesso, ma appare scintillante nei meandri costantemente mutevoli dell'intreccio, a tratti affine ai coevi sberleffi mahleriani. L'idea degli effimeri destini umani viene sublimata in una Wunderkammer sonora, depurata di qualsiasi terrena tragicità. Una direzione ariosa, affine al decorativismo klimtiano più che alle contorsioni di uno Schiele, che attinge a dimensioni metafisiche. Si pensi ai riverberi lunari e all'assoluta trasparenza raggiunta nella scena della presentazione della rosa, o ancora alla perfezione del terzetto e del duetto dell'epilogo, agli accordi diafani che accompagnano le profferte amorose di Octavian e Sophie; suoni che hanno del miracoloso, che paiono tratti direttamente dalla volta dell'empireo. Risultato reso possibile dal terzetto femminile. Krassimira Stoyanova è una Marescialla di aristocratica presenza, matura nell'accettazione della propria finitezza, ardita nel dirigere l'intreccio verso la sua inevitabile conclusione; addirittura paradisiaco il canto di Sabine Devieilhe, una Sophie di alabastrina chiarezza. Brava infine Kate Lindsey nel ruolo en travesti di Octavian, solo un poco forzata quando veste i panni della cameriera Mariandel. Günther Groissböck ha grande presenza scenica e inclinazione attoriale per il volgare e insensibile Barone Ochs von Lerchenau, anche se risulta a tratti appannato dal punto di vista strettamente vocale. Michael Kraus incarna un Faninal robusto e mai caricaturale. Ben curate tutte le parti di contorno, dalla Marianne di Caroline Wenborne al Valzacchi di Gerhard Siegel, fino alla Annina di Tanja Ariane Baumgartner. Una menzione merita Piero Pretti nel ruolo tanto breve quanto arduo del cantante, zittito dall'insolenza di Ochs nel bel mezzo della sua magnifica e insidiosa aria, risolta con apprezzabile lirismo. Se abbiamo ascoltato con attenzione, avremo attinto al fulcro dell'opera, ovvero che “il tempo è intorno a noi, ma anche dentro di noi”, che “tutto si disfa come nebbia o sogno”, e che il senso del nostro esistere risiede nell'accettazione di questo enorme mistero. Se siamo usciti dalla sala avendo almeno avuto il presentimento dell'eterno, di cui la rosa è straordinario simbolo, la rappresentazione avrà raggiunto il suo scopo. Chi scrive ne è rimasto turbato, e questo è quanto chiediamo al teatro. Successo vivissimo per tutti da parte di un pubblico che non ha lesinato il proprio entusiasmo.
Riccardo Cenci
28/10/2024
La foto del servizio è di Brescia&Amisano.
|