Pesaro
Moïse et Pharaon, il fu Mosè
Come tutti gli italiani di allora Rossini godeva di meritata fama a Parigi e in tutta Francia, ma così come anche gli altri al momento di comporre ‘in francese' doveva ‘adeguarsi'. E come anche si sa, si adeguava più che bene. La trasposizione del quasi oratoriale Mosè in italiano diventava qualcosa di molto diverso: questo ‘nuovo' titolo, con il tipico grande balletto di tradizione, meno o pochi assoli, più duetti e numeri di assieme, grande ruolo del coro, orchestrazione più complessa. C'è chi predilige la più semplice versione italiano, chi questa, e chi (non troppi ma anche) la traduzione in italiano di questa che qui ci occupa.
Comunque sia ci troviamo davanti a un'opera davvero grande (che non è lo stesso di una grand opera), interessantissima, originale e...molto difficile. Come capita spesso, e anche se non tutti i chiamati in causa si trovavano allo stesso livello - praticamente impossibile -, questo è lo spettacolo che da solo può giustificare quest'edizione del Festival. La parte più debole è stata la scenografia. Pierluigi Pizzi è uomo raffinato, colto e di gusto squisito, come dimostrano quasi sempre le sue scene e costumi, ma una regìa non è questo, non il decorativo o magari il ‘bello' (con semplici effetti speciali e luci di Massimo Gasparon, anche regista collaboratore); e se la cosa migliore è quando tutti gl'interpreti (coro compreso) stanno fermi magari un pensierino si dovrebbe fare (se qualcuno riesci a scappare lo fa esclusivamente per il suo carisma o la sua personalità). Meno interessante ancora la coreografia di Gheorghe Iancu, assolutamente convenzionale e priva di ogni legame con la situazione drammatica; ma anche se così subentra quel po'd'impazienza, niente c'è che ‘rovini' la serata. E va subito detto che al pubblico tutto questo è molto piaciuto, e, piaccia o meno, anche di ciò va tenuto conto.
Nell'aspetto puramente musicale c'erano, come no, dei distinguo, ma a un livello parecchio elevato. Il coro del Teatro Ventidio Basso, sempre istruito da Giovanni Farina, era in grandissima forma dall'inizio alla fine (e si badi che alla formazione è molto quel che qui si richiede).
L'orchestra, sempre ineccepibile dal punto di vista tecnico, era agli ordini di una bacchetta sensibile, quella di Giacomo Sagripanti, che curava molto ogni aspetto dell'esecuzione (il maestro una volta veniva definito anche ‘concertatore' e non solo ‘direttore')e rinnovava, in meglio, la bella impressione fatta ai tempi di Ricciardo e Zoraide. Magari dovrebbe, in particolare verso la fine dell'operare, rivedere alcuni aspetti enfatici, ma l'insieme del suo lavoro era eccellente. I comprimari, a cominciare dalla bella Marie di Monica Bacelli, erano bravi quanto basta (Matteo Roma nei panni di Aufide e Nicolò Donini in quelli della voce misteriosa e di Osiride). Le altre due figure femminili sono le uniche ad avere una vera e propria ara per loro e trionfavano. In assoluto era vincitrice (se si deve parlare proprio in questo modo in un evento culturale) Vasilisa Bezhanskaya(Sinaïde, moglie del faraone), che alla fine del secondo atto provocava un autentico delirio; magari l'acuto è un po'metallico, ma sembrerebbe cosa piuttosto di scuola di canto. Eleonora Buratto (Anaï) ha dalla sua una voce bellissima e generosa ma negli ultimi anni si osserva una tendenza a gonfiare il suono in particolare nei gravi di cui non ha nessun bisogno e può risultare -speriamo di no - pericolosa. Roberto Tagliavini era un protagonista davvero ottimo, di registro omogeneo e saldo, e buon colore da vero basso cantante, in più d'intelligente, benchè per quanto al carisma cedeva – di poco- al Faraone di Erwin Schrott, che aveva in più il vantaggio di aver già cantato la parte ai tempi dei suoi debutti alla Scala se non erro nel 2003; ebbene, adesso l'ha aprofondito su tutti i fronti, il personaggio è chiaramente ‘suo' e la voce suona ampia e bella (a quanto pare ad alcuni dànno fastidio le voci grandi -e qui ce n'erano, ma il problema risiede piuttosto nel modo in cui viene adoperata). Andrew Owens, per le dimensioni e il colore dello strumento, ma soprattutto per l'emissione, era invece solo accettabile nella difficile parte di Aménophis, e quindi ci sarà ancora lavoro da fare (i duetti con Faraone e le due donne erano davvero inclementi con lui). Meglio, malgrado un timbro non baciato dal Signore, l' Éliézer di Alexey Tatarintsev, cui per fortuna venne riconosciuto il merito di avere a che fare con un ruolo impervio ed alquanto arido. Il successo al calor bianco durante lo spettacolo e ancora di più alla fine parlava ben chiaro. Non ascoltai ovazioni nè applausi di questo genere nelle altre due serate.
Jorge Binaghi
26/8/2021
La foto del servizio è di Studio Amati Bacciardi.
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