Il viaggio a Reims di Rossini fra realtà e finzione
Con Il Viaggio a Reims Rossini confeziona una partitura singolare, «refrattaria a ogni definizione», per usare le parole di Alberto Zedda, un lavoro la cui vacuità drammaturgica diviene il viatico ideale per rivisitare l'intero repertorio dei clichés operistici, accendendo i fuochi di un'invenzione musicale inesauribile. Lungi dal restare invischiato nelle pastoie dell'occasione celebrativa, il pesarese plasma la materia secondo la propria personalissima sensibilità. La cantata scenica per l'incoronazione di Carlo X diviene così un pezzo di teatro unico nel suo genere. L'esile trama si trasforma in un pretesto per scandagliare l'animo dei nobili provenienti da tutta Europa, costretti a una convivenza forzata in quanto impossibilitati a trovare un mezzo di trasporto per raggiungere Reims, dove avverrà l'incoronazione di Carlo X. La retorica celebrativa si stempera nella commedia di costume, nello sberleffo colmo di ironia, nella critica scoperta ma mai percepita come pericolosamente rivoluzionaria della società del tempo. L'alterità de Il Viaggio a Reims si evidenzia anche nella tormentata vicenda esecutiva. Dopo le prime tre rappresentazioni del 1825, fu Rossini stesso a impedire ulteriori riprese. Evidentemente la considerava un'esperienza chiusa, strettamente legata all'occasione per la quale era stata composta. Il seguito è storia nota. Caduta nell'oblio, a lungo ritenuta perduta, la partitura riapparse come per incanto. La messa in scena del 1984, affidata alla regia di Ronconi e alla bacchetta prodigiosa di Abbado, è ormai consegnata alla leggenda. Ma torniamo all'oggi. Lo spettacolo andato in scena a Roma riprende un allestimento visto alla De Nationale Opera di Amsterdam. Forse spaventato dall'inconsistenza della materia drammatica, preda di un horror vacui paralizzante, il regista Daniele Michieletto colma il palcoscenico di siparietti e trovate, alcune pregevoli, altre superflue. Nel complesso la bilancia, occorre dirlo, premia il lavoro registico, per cui alcune cadute di tono vengono riscattate dalla riuscita complessiva. Lo spettacolo risulta godibile, anche se la drammaturgia che lo innerva appare di scarsa coerenza. Un museo, luogo della conservazione della memoria e delle invenzioni iconografiche più audaci, ospita la vicenda. I personaggi si mescolano con i protagonisti delle tele in una singolare alchimia. Van Gogh e Frida Kahlo dialogano con gli omini stilizzati di Keith Haring e con le anatomie cubiste di Picasso; arte e vita, realtà e finzione si mescolano ammantando la vicenda di un velo surreale. Particolarmente poetica l'idea del restauratore che si innamora del quadro sul quale sta lavorando, non a caso una magnifica donna ritratta da Boldini, la cui immagine a poco a poco si distorce quasi a rappresentare l'impossibilità di un sogno pronto a mutarsi in incubo. Meno felice la scena nella quale un visitatore viene spogliato delle proprie vesti; un uomo in mutande che corre per il palcoscenico garantisce le risate del pubblico, ma non sfugge un certo gusto da avanspettacolo. Discutibile anche la scena dell'asta, che sembra pensata solo per coinvolgere la platea nella macchina scenica. Suggestivo al contrario il momento nel quale la statua delle tre grazie si anima, dando vita a un gustoso balletto, ben delineato dal prezioso uso delle luci a cura di Alessandro Carletti, mentre il soave canto di Corinna fuori scena celebra la calma ritrovata e la pace fra gli uomini. Passato e presente si incontrano nel duetto fra il Conte di Libenskof e la Marchesa Melibea. Una coppia di ragazzi d'oggi fornisce un efficace contrappunto agli amanti in costume, i quali agiscono all'interno della cornice di un quadro. Il meglio viene comunque nel finale. Michieletto ricostruisce con grande maestria tecnica e ammirevole virtuosismo il quadro di François Gérard, appunto la Consacrazione di Carlo X come re di Francia, grazie anche ai bei costumi di Carla Teti e al sapiente dosaggio luministico. I personaggi si muovono al rallentatore, disponendosi esattamente come le figure che animano l'enorme tela, mentre in sottofondo si ode l'inno in lode del re cantato da una peraltro bravissima Mariangela Sicilia (Corinna). Arte e vita si fondono in maniera perfetta.
Arduo è comporre un cast interamente all'altezza delle aspettative in un lavoro che necessita di una ampia galleria di solisti. Alterni quindi gli esiti vocali. I migliori sono la già citata Mariangela Sicilia, voce purissima e ben governata, e un veterano del canto rossiniano come Juan Francisco Gatell, un Cavalier Belfiore stilisticamente perfetto. Efficace anche Bruno De Simone nei panni del Barone di Trombonok, il quale supplisce a una certa usura vocale con la maestria del buffo di rango. Riguardo le nobildonne, brava Anna Goryachova nelle vesti della Marchesa Melibea, sufficiente Maria Grazia Schiavo come Contessa Di Folleville, appena discreta Francesca Dotto (Madama Cortese). Pessimo Merto Sungu, un Conte di Libenskof sgraziato e urlante. Buono infine Adrian Sâmpetrian come Lord Sidney, mentre da Nicola Ulivieri ci saremmo aspettati una maggiore varietà espressiva e un sillabato più scandito nella celebre aria Medaglie incomparabili. Per dovere di cronaca occorre dire che quest'ultimo non è stato agevolato dalla direzione poco attenta ai desiderata belcantistici e non solo di Stefano Montanari. Innumerevoli squilibri fra orchestra e palcoscenico minavano l'esecuzione. Le voci, molte non enormi, a volte sparivano nel mare orchestrale. Qualcuno dovrebbe spiegare a Montanari che non basta vestire in maniera eccentrica, oppure infilarsi la bacchetta nel colletto per poi riprenderla con destrezza, per essere un grande direttore. Agogiche schizofreniche e dinamiche altrettanto personali contribuivano a stravolgere il gusto rossiniano, annegando ogni raffinatezza in un suono strumentale anonimo e pesante. Peccato, perché l'occasione era ghiotta. Spettacolo dedicato a Philip Gossett, musicologo e studioso rossiniano recentemente scomparso.
Pubblico letteralmente entusiasta per lo spettacolo, salutato da ovazioni interminabili.
Riccardo Cenci
20/6/2017
Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.
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