Ribellarsi è giusto
Da sinistra: Jean-Paul Denizon, Margherita Patti, Natalia Bacalov e Melita Poma.
Se la donna nella nazioni occidentali ha conquistato ormai da tempo, almeno sul fronte dei diritti civili e della tutela giuridica, tutta la dignità che le compete, tuttavia non va dimenticato che ancor oggi, nei paesi islamici, la sua condizione è ben peggiore di quella di una donna nel Medioevo, e che tuttora, in contesti cosiddetti civili, gli stupri e le violenze ai danni delle donne sono anche oggetto di riflessioni indegne e infamanti, volte di fatto a giustificare tali reati con una presunta connivenza della parte lesa, con un generico “se l'è cercata”, con l'insistere sul fatto che la vittima indossasse un abbigliamento succinto che avrebbe stimolato l'uomo a delinquere, affermazione che, se da un lato afferma implicitamente che una persona non ha il diritto di vestirsi come le pare, dall'altro svela una concezione dell'essere umano di sesso maschile molto vicina a quella del gorilla (senza offesa per i primati!), perennemente infoiato e pronto a saltare addosso alla prima femmina che gli capiti a tiro. La donna insomma, oggi come ieri, e in barba alla tanto sbandierata parità di genere, che si contenta di una matematica eguaglianza tra uomini e donne all'interno delle strutture governative e del volgere al femminile tutti i sostantivi indicanti una carica o una professione, è vittima di una discriminazione strisciante che continua a considerarla più come oggetto sessuale che come autentica persona, discriminazione pronta a ripresentarsi nelle ciance da salotto a ogni piè sospinto, si tratti di un medico violentato mentre svolge il suo lavoro, o di una giovane donna stuprata da ragazzi dai quali ha poco accortamente accettato un passaggio in automobile.
In tale ottica, non si può non plaudire alla scelta del Teatro Machiavelli che ha presentato il 10 novembre a Catania la pièce di Valeria Moretti Una tavolozza rosso sangue, per la regia di Jean-Paul Denizon e le musiche e il canto dal vivo di Natalia Bacalov, fine e delicata violoncellista figlia di Luis Bacalov, premio Oscar per la colonna sonora de Il postino di Massimo Troisi. Il lavoro, proposto anche alle scuole della città, si articola in due grandi monologhi, con protagoniste due pittrici la cui vita è stata un atto di ribellione, contro la società e la malattia: Artemisia Gentileschi e Frida Kahlo.
Se la vicenda umana di Artemisia Gentileschi, figlia di Orazio, ha il suo snodo principale nella violenza perpetrata ai suoi danni da Agostino Tassi, un pittore amico del padre, quella di Frida Kahlo è segnata sin dalla nascita dalla malattia, in quanto era affetta da spina bifida, scambiata all'epoca per poliomielite, e da un terribile incidente che la condannò non solo a innumerevoli interventi chirurgici, ma a un'esistenza di dolori atroci e di menomazioni fisiche, estetiche e motorie, nonostante le quali riuscì comunque ad amare e a essere amata e, quel che più conta, a fare della sua condizione, come per altri versi Artemisia, lo stimolo principale della creatività artistica. Quel che accomuna queste due donne insomma, lontanissime nel tempo e nello spazio, è la ribellione, alla società col suo conformismo per l'una, alla malattia per l'altra: un'arte che nasce comunque dal sangue, reale in entrambi in casi, giacché Artemisia, vittima di uno stupro, fu sottoposta a umilianti visite ginecologiche e anche alla tortura nel tentativo di farla ritrattare per evitare guai allo stupratore, ricercato e coccolato dai potenti per la sua abilità pittorica, e Frida dovette subire operazioni su operazioni per riuscire a sopravvivere, facendo però della sua menomazione non una vergogna da nascondere, ma un segno distintivo che, emergendo dai suoi quadri, ha dato vita a tele sconvolgenti, dove il dolore umano riesce a farsi figura tangibile, così come la Giuditta della Gentileschi gronda tutta l'ira della donna violata e umiliata, che uccidendo il tiranno sopraffà finalmente il suo aguzzino.
I due monologhi, interpretati da Margherita Patti, Artemisia, che ha impresso al suo personaggio la fiera personalità della pittrice, il suo sdegno per gli uomini, il suo spirito di rivalsa tutto sociale e ideologico, e dalla bravissima Melita Poma, Frida, che ha tratteggiato con vigore tutta la sofferenza e i fantasmi che ossessionavano l'esistenza dell'artista messicana, nonché il suo delirio erotico nei confronti del marito Diego Rivera, erano in maniera quasi didattica suddivisi in due momenti ben distinti: dapprima l'attrice delineava il personaggio, nelle sue note caratteriali, nel suo modo di interagire con il sociale, per culminare poi, in maniera inavvertita dapprima, ma con crescente pregnanza, nella rievocazione di quel momento cruciale dell'esistenza che ne ha determinato la svolta in senso artistico. Se i dettagli dello stupro affioravano crudi per Artemisia, onnipresenti nei dipinti che venivano proiettati, per Frida la malattia e l'incidente si stagliavano a tinte sempre più fosche, lasciando emergere nel contempo una prepotente e indomabile volontà di vivere nonostante tutto, con tutta la pienezza possibile della vita, in una visione sanguigna che si concretava nel rosso che dominava la fantastica, mediterranea e solare natura morta che si stagliava alle sue spalle.
Il pubblico che gremiva letteralmente la sala del Machiavelli ha salutato le artiste, ma anche il regista Denizon, con calorosi e prolungati applausi, mostrando quanto viva sia la richiesta di un teatro civile e contemporaneo nello spettatore catanese uso a frequentare sale meno blasonate ma senz'altro più vive e stimolanti.
Giuliana Cutore
11/11/2019
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