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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Attualità di Chovanšcina

Un sontuoso Musorgskij alla Scala

Vive di una drammaturgia del tutto peculiare la Chovanšcina di Musorgskij, animata da un afflato visionario che trasfigura i fatti storici che innervano la vicenda, peraltro trattati con estrema libertà. Il tema dominante è quello del contrasto fra la vecchia Russia in via di disfacimento e la nuova, che nascerà sulle sue ceneri. La narrazione inanella una serie di quadri separati con spiccata originalità, come farà il regista Andrej Tarkovskij nel suo Rublëv. E non è un caso che continui rintocchi di campane, reali o immaginari, scandiscano il tempo dell'opera, analogamente al Boris, quasi a ricordare ai personaggi i legami di un ineluttabile destino, mentre nel capolavoro del regista russo proprio la fusione di una campana simboleggia la capacità dell'artista di capovolgere un fato già segnato. In entrambi i casi il potere assume volti terrificanti, e la guerra si stende infinita sulle vicende umane; in entrambi il montaggio, in senso cinematografico quanto operistico, è lotta con la materia, tentativo di domare l'ingovernabile, ovverosia il tempo.

Mario Martone, nella sua personale declinazione del dramma di Musorgskij andato in scena al Teatro alla Scala, non guarda tanto all'esperienza filmica del regista russo, quanto al Blade Runner di Ridley Scott. L'opera si svolge nelle atmosfere nebbiose di un enigmatico futuro, nella notte screziata da bagliori misteriosi e fuochi fatui, solcata da rapide navicelle spaziali, in dimore una volta sontuose, oggi sperdute in paesaggi nevosi punteggiati da relitti di automobili e rovine industriali. Paesaggi apocalittici delineati con efficacia dalle scene di Margherita Palli. La gestualità dei protagonisti e i movimenti di massa suggeriscono atmosfere cinematografiche che culminano nel grande rogo finale, un omaggio al Melancholia di von Trier, con un pianeta infuocato a divorare il palcoscenico come un minaccioso presagio. Per il resto tutto è veicolo di emozione. La zarina solca la scena portandosi dietro i due rampolli, Ivan e Pietro, a materializzare una presenza incombente ma mai esplicitata direttamente, mentre nel finale primo la vediamo in tenere effusioni con il principe Golicyn, a ricordare la loro trascorsa passione. Proprio quest'ultimo è protagonista del secondo atto, definito dal compositore la chiave di volta del dramma intero. Qui i contrasti fra i protagonisti esplodono violenti, specchio di una realtà in preda al disordine. Nel quarto atto il principe Ivan Chovanskij, prima di essere assassinato, spara per gioco a stormi di uccelli in volo senza riuscire a colpirli; quasi un voler esplicitare il dissidio irrisolto fra uomo e natura. Le schiave persiane vengono sostituite da più prosaiche e contemporanee escort. Sarà una di loro a decretare, con un colpo di fucile, la fine del principe oligarca. Giochi di potere che appaiono con tutta l'evidenza dell'attualità. Unica nota stonata in uno spettacolo di grande impatto emotivo, l'irrompere improvviso di una troupe cinematografica a riprendere il popolo in tumulto, una trovata già vista e piuttosto inutile. Per il resto il lavoro di Martone è pregevole, sempre sorretto da un grande senso del teatro.

Magnifica la direzione di Valery Gergiev, magistrale nel sottolineare la tensione mistica costante, l'alternanza fra brutalità e lirismo che muove la narrazione, sempre ricca di scavo e di intima sofferenza. La precisione analitica del dettato strumentale e la ricerca minuziosa del dettaglio non sacrificano affatto il coinvolgimento. L'Orchestra della Scala offre una delle sue prove migliori, sfoggiando una ricchezza timbrica sontuosa e un suono costantemente calibrato sull'emozione. Ancor più strepitoso, se possibile, il coro, preparato in maniera certosina da Bruno Casoni, anche riguardo la dizione. Basti ascoltare il finale del terzo atto, con quel perfetto dissolversi delle voci nel silenzio, e la conclusione dell'opera, per averne la prova. L'immagine di Musorgskij, filtrata attraverso il lavoro che Šostakovic fece sulla stesura originale, non è mai stata tanto viva e presente. Eccellente il cast. Mikhail Petrenko è un Ivan Chovanskij arrogante e tronfio, vocalmente e scenicamente centrato. Eccezionale Ekaterina Semenchuk nel ruolo di Marfa, la quale coglie un vero e proprio successo personale. Altrettanto impressionante per varietà di fraseggio, omogeneità di registro e autorevolezza Stanislav Trofimov, nel ruolo di Dosifej che fu del grande Šaljapin. Spavaldo e squillante il principe Andrej di Sergey Skorokhodov, così come solido e robusto è apparso il Šaklovityj di Alexey Markov. Eugeny Akimov riesce a volgere a fini espressivi qualche fissità vocale, delineando un principe Golicyn lacerato fra il freddo raziocinio e i fantasmi della superstizione. Di gran lusso la presenza di Eugenia Muraveva nel ruolo, breve ma insidioso, di Emma. Brava Irina Vashchenko come Susanna, apprezzabile Maxim Paster nella parte dello scrivano. Tutti ben caratterizzati gli innumerevoli ruoli di contorno. Enorme il successo di pubblico, per uno spettacolo che conferma la Scala ai massimi livelli internazionali.

Riccardo Cenci

5/3/2019

Le foto del servizio sono di Marco Brescia&Rudy Amisano.