Uova di Cigno
Adelson e Salvini nel 183° anniversario della morte di Vincenzo Bellini
Il Bellini di Catania ha inteso commemorare il suo più illustre concittadino mettendo in scena, nel 183° anniversario della morte, avvenuta a Puteaux il 23 settembre del 1835, la prima opera del Cigno catanese, quell'Adelson e Salvini che fu composto da Bellini nel 1825, a conclusione del suo percorso di studi al Real Collegio di Musica San Sebastiano, e rappresentato nel Carnevale dello stesso anno (forse il 12 febbraio) nel teatrino del conservatorio. Quella che oggi verrebbe senz'altro chiamata tesi di laurea rappresenta forse il momento di massimo ossequio del Nostro alla cosiddetta Scuola Napoletana e al melodramma settecentesco, il tentativo di muoversi nel solco di una tradizione ormai consolidata e accettata da tutti, un tentativo dettato probabilmente dalla necessità di soddisfare i maestri con una musica che suonasse consueta, in linea con i dettami contemporanei, ma soprattutto aderente a una concezione del melodramma che Bellini non tarderà a sovvertire completamente, in un percorso che culminerà in quel capolavoro assoluto che è Norma, separata dalla prima operina solo da sei anni.
Scelta alquanto di nicchia per una commemorazione, quella del Bellini, tanto più se si pensa che la stessa edizione dell'opera, coprodotta dal nostro Teatro e dalla Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, è andata in scena appunto al Teatro Pergolesi di Jesi nel novembre del 2016, dunque in tempi abbastanza recenti: tuttavia si tratta di una scelta che trova una sua ragion d'essere più che nella peculiarità e nella rarità di esecuzione dell'opera, nel suo essere l'inizio di un percorso musicale unico che proprio il pubblico catanese, devoto a Bellini quanto a Sant'Agata, dovrebbe conoscere nella sua integrità, per comprendere appieno lo sforzo che il giovane catanese compì per contribuire a creare, insieme a Verdi, quel miracolo artistico che è il melodramma italiano ottocentesco. Ben venga dunque questa riproposta dell'Adelson e Salvini, nella sua prima versione, opera semiseria alla francese con i dialoghi parlati – tutti in italiano a eccezione di quelli di Bonifacio, il buffo, vero e proprio deus ex machina della vicenda, che si esprime nel dialetto napoletano dell'epoca.
L'opera, come dicevamo, rappresenta il momento di più stretta aderenza di Bellini ai canoni della tradizione, sia da un punto di vista drammaturgico che musicale: i personaggi sono assolutamente stereotipi, e per di più le parti femminili vennero interpretate en travesti da studenti del conservatorio, e sempre a studenti furono affidate quasi tutte le altre parti; il libretto, di Andrea Leone Tottola, già utilizzato nel 1816 su musiche di Valentino Fioravanti, è un vero e proprio guazzabuglio di tutti i cliché poetici del primo Ottocento, e nonostante ci fosse stato qualche tentativo di adattarlo, risulta non solo antiquato e insignificante, ma soprattutto assolutamente inadeguato da un punto di vista metrico alla musica di Bellini; la vicenda si snoda senza alcuna possibilità di coinvolgimento drammatico, né seria né comica, tranne per alcuni interventi del comico Bonifacio. Sul fronte musicale, l'impressione che ne viene allo spettatore aduso al grande Bellini è quella di un vivo legato a un cadavere che si dibatte tentando disperatamente di liberarsi: sì, perché se nella Sinfonia emergono temi che saranno poi utilizzati ne Il Pirata, e se l'aria di Nelly “Dopo l'oscuro nembo” contiene in germe la stupenda aria di Giulietta “Oh quante volte oh quante”, è nel terzo atto, quasi alla fine dell'opera, che lo spettatore attonito riconosce all'improvviso il tipico accompagnamento belliniano, udendo stupito alcuni frammenti di melodia che si ritroveranno in Norma. Specie per questi ultimi, si tratta di brevissimi istanti, risommersi subito dopo dall'ossequio alla tradizione, nella forma resa canonica per quanto riguarda il melodramma da Pergolesi, Piccini, Paisiello, Cimarosa e Rossini.
Adelson e Salvini, insomma, è utile soprattutto in negativo a chi voglia avvicinarsi realmente a Bellini, perché aiuta a misurare l'enorme distanza che in pochi anni viene percorsa, soprattutto musicalmente, e perché spiega il lavorio incessante che, grazie anche all'aiuto inestimabile di Felice Romani, il Cigno catanese compì sulla drammaturgia melodrammatica, riuscendo a trasformare durante la sua breve esistenza i personaggi da vuote sagome di cartone a figure drammatiche con una loro coerenza interna, con un loro dinamismo interiore, con un travaglio di sentimenti reale e non finto. Bellini lavorò sfrondando senza pietà le interminabili arie col da capo, rendendo i recitativi parte integrante dell'opera, gioielli musicali funzionali alla dinamica dei personaggi, ma si affannò anche sul fronte musicale, sulla funzione della voci, sull'orchestrazione, soprattutto ne I Puritani – che drammaturgicamente, finita la collaborazione con Romani, rappresentano forse un passo indietro, ma musicalmente un immenso balzo avanti, soprattutto nell'ampliata dialettica tra i ruoli vocali e nel notevole rilievo dato anche a quelle maschili – spianando nei fatti la strada alle grandi creature verdiane, che senza Imogene, Norma, ed Elvira avrebbero faticato molto di più a nascere.
Meritoria dunque, la riproposizione di quest'opera, che mancava dalle scene catanesi dal 6 novembre 1985 (Teatro Metropolitan) mentre il 23 settembre del 1992 veniva proposta al pubblico etneo la seconda versione dell'opera (Teatro Massimo Bellini): andrebbe anzi sporadicamente riproposta proprio al fine di far comprendere, generazione dopo generazione, tutta l'ampiezza e la precocità del genio belliniano: un allestimento di buon livello, affidato alla stilizzata regia di Roberto Recchia e alle scene di Benito Leonori, scene che insistevano, forse un po' troppo, sul mestiere di pittore di Salvini, e costituite essenzialmente da grandi quadri, mossi qua e là senza un disegno finalizzato nè ben comprensibile, ma che in tempi di minimalismo finanziario vanno comunque accettate. Gradevoli e raffinati i costumi di Catherine Buyse Dian, tesi a enfatizzare l'aspetto oleografico dei personaggi.
La direzione di Fabrizio Maria Carminati ha impresso all'orchestra del nostro Teatro un'aggraziata levità e una leggerezza ben in linea con la partitura originale, destinata ad alunni di conservatorio e più d'impianto cameristico che propriamente sinfonico, con tempi adeguatamente dosati e sonorità più settecentesche che romantiche, il che ha contribuito a ricreare l'autentica dimensione dell'opera, giovanile esplorazione di un mondo melodrammatico proto ottocentesco che già mostrava i suoi limiti e la sua ormai stereotipa convenzionalità. Anche il coro maschile del Bellini, diretto da Luigi Petrozziello, si è mosso in quest'ottica che potremmo definire prebelliniana, con sonorità attenuate e una leggerezza di suono che amplificava il carattere assolutamente ingenuo, quasi naif, della vicenda narrata alla meno peggio da Tottola.
Di buon livello anche le prestazioni dei cantanti, che del resto, a eccezione del tenore (ruolo già ricoperto da un professionista anche nel 1825), non avevano grandi difficoltà da superare: gradevoli Kamelia Kader, Madama Rivers, e Lorena Scarlata, Fanny, e abbastanza in ruolo Oliver Pürckhauer, Geronio, e Giuseppe De Luca, Struley, come anche Carmelo Corrado Caruso nel ruolo di Lord Adelson, mentre Josè Maria Lo Monaco ha interpretato con notevole professionalità il ruolo di Nelly, al quale ha prestato una voce dal bel timbro, ben controllata, e dall'emissione notevolmente morbida.
Su tutti spiccava però, per la sua innata musicalità e sicurezza attoriale, il buffo Clemente Antonio Daliotti, che è stato l'unico a dominare realmente la scena, prestando al ruolo di Bonifacio una voce di buona estensione, luminosa e in grado di piegarsi senza danno anche alle asperità del dialetto napoletano stretto. Un cantante che, se saprà riservarsi un repertorio adeguato, potrà dare ottima prova di sé nei ruoli comici per eccellenza di Dulcamara, Don Bartolo e in generale nel repertorio buffo.
Quanto a Francesco Castoro, cui era stato affidato il ruolo più impegnativo vocalmente, quello di Salvini, pur dimostrando una buona estensione vocale e una discreta disinvoltura scenica, non ha brillato né per morbidezza di emissione né per la cura riservata agli acuti, che suonavano spesso aspri e striduli, evidentemente per lacune tecniche e incertezze di impostazione che però, se colmate in maniera tempestiva e adeguata, potranno rendere interessante un cantante dalle promettenti possibilità musicali.
Giuliana Cutore
24/9/2018
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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