In Paradiso ci si va ridendo
Carmelo Bene, per liquidare il teatro cosiddetto di tradizione, lo definiva “il Presepe”. In realtà, almeno in via preterintenzionale, non è che avesse torto: poche forme d'arte hanno la vis teatrale di un presepe ben riuscito. Lo sapeva, con largo anticipo sui teatranti di avanguardia, il ventunenne Giovanni Battista Pergolesi, che per la sua opera di esordio – ma già tutt'altro che di apprendistato – volle tentare la strada, solo apparentemente ossimorica, di un oratorio teatralissimo come pochi. Nominalmente “dramma sacro in tre atti”, Li prodigi della Divina Grazia nella conversione e morte di San Guglielmo duca d'Aquitania (1731) lascia infatti insoluto il problema se conti di più il sostantivo o l'aggettivo: se, insomma, la stella polare estetica e drammaturgica del lavoro si racchiuda nel “dramma”, con tutta la forza da palcoscenico che ne consegue, o nel “sacro”, con la sua dimensione implicitamente più statica e raccolta. Spetterà all'esecuzione individuare una bussola e a Jesi, in occasione del sedicesimo Festival Pergolesi Spontini, non hanno avuto dubbi: il San Guglielmo s'ha da trattare come un'opera. Dunque ricorrendo a una messinscena, stilizzata certo, ma pur sempre con un preciso lavoro registico e scenografico; a una lettura musicale più incline alla “mobilità” drammatica che alla “fissità” religiosa; e a un cast che, senza rinunciare alla pertinenza stilistica, contava su voci tonde, vivide, timbrate. Voci da opera, insomma.
In cosa consiste l'irresistibile teatralità del San Guglielmo? Fondamentalmente nel fatto che le dispute teologico-politiche (siamo in pieno scontro tra papa e antipapa), le metafore tra malattia e peccato (il protagonista, cieco davanti alla vera fede, per contrappasso perderà la vista), i duelli tra angeli custodi e demoni tentatori (ma i primi non sono meno machiavellici dei secondi…), il mulinare tra la caparbietà dell'orgoglio e la macerazione della penitenza, ogni ingrediente insomma, viene ricondotto a un duplice registro: quasi tutti i momenti hanno il loro “doppio” comico, così come il tragico, titanico e infine santificato protagonista ha per “spalla” il buffonesco Cuosemo, spadaccino provetto ma affamato, che si esprime in vernacolo napoletano. Ne scaturisce un frastagliato gioco di specchi: dove pure la buffoneria è edificante e anche il viatico per il regno dei cieli è umoristico.
Insomma, un piano “alto” e uno “basso”: e la scrittura canora lo rispecchia, affidando a voci gravi la prosaicità del comico e la perfidia degli inferi (sia Cuosemo che il Demonio sono bassibaritoni), mentre al nobilissimo protagonista, all'Angelo e alle altre voci della fede Pergolesi richiede più o meno siderali registri sopranili. Su tali opposti fronti spiccano, in quest'edizione jesina, Clemente Antonio Daliotti (un “buffo” senza trucchi, sapido nell'accento ma pure cantato dalla prima all'ultima nota) e Arianna Vendittelli (che con vocalità agile e luminosa, ma anche grazia muliebre, sancisce una volta per tutte quale sia il sesso degli angeli). Né gli altri demeritano: Maharram Huseynov è forse troppo baritono e troppo poco basso per le risonanze infernali del Demonio, ma s'impone per autorevolezza scenica ed eccellente dizione italiana; Sofia Soloviy è camaleontica e ispirata, nel saio di San Bernardo come in quello di Padre Arsenio; Raffaella Milanesi – almeno la sera della “prima” – non parte bene, con recitativi troppo aggrediti e qua e là scompaginati, ma prende quota nel cantabile e, via via, s'impone per compenetrazione espressiva, arrivando a un ultimo atto (con la struggente aria Manca la guida al piè, che ritrae Guglielmo cieco) davvero emozionante.
A fare da sfondo, un allestimento debitamente spartano: la regia di Francesco Nappa, tolto forse un surplus di mimi, è discretissima; Benito Leonori limita il suo lavoro scenografico a pareti scorrevoli e grandi croci; lasciano maggior segno i costumi di Giusi Giustino, memori della tradizione dell'Opera dei Pupi. Christophe Rousset e il suo ensemble Les Talent Lyriques profilano sonorità nitide, spesso scattanti, ma tutt'altro che svuotate di peso drammatico: una sorta di aureo compromesso tra il Pergolesi filologico dei barocchisti, dalle cui fila Rousset proviene, e quello senza tempo – come dovrebbe esser proprio d'ogni immarcescibile classico – modellato da Giulini, Abbado, Muti.
Li ritroviamo, sia lui che i suoi orchestrali, nel concerto “mariano” alla Basilica di Loreto eseguito tra la première e la replica del San Guglielmo: uno stimolante confronto tra il concentratissimo Salve Regina pergolesiano e quello, un po' più esteriore, di Leonardo Leo. Se il primo è stato discretamente servito dal contralto Benedetta Mazzucato, il secondo ha trovato nel soprano Francesca Aspromonte una duttilità insieme dolce e spavalda (caleidoscopiche, ma sempre inappuntabili, le ripetute messe di voce), molto acconcia a una pagina dove la devozione flirta con il barocchismo. La serata si è poi chiusa sotto il segno dello Stabat Mater – quello di Pergolesi, ovviamente: con un Rousset qui più propenso all'intimismo lirico che alla spoglia drammaticità, e, soprattutto, un finale a sorpresa. Durante l'Inflammatus, la basilica è rimasta al buio per un cortocircuito. Con inappuntabile professionalità, direttore, orchestrali e soliste sono arrivati fino in fondo, rischiarati soltanto dalle torce di qualche provvidenziale telefonino. Che i cellulari abbiano propiziato l'esito di un concerto, anziché disturbarlo, sa di miracoloso. D'altronde eravamo a Loreto.
Paolo Patrizi
13/9/2016
La foto del servizio è di Stefano Binci.
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