L'eroe e la belle dame sans merci
Dalila, in ebraico Dlila, significa colei che indebolisce o impoverisce o sradica: dunque una donna che usa della sua seduzione per distruggere un uomo, nemico o ex amante che sia. La storia annovera parecchie di queste donne, da Giuditta a Mata Hari, passando per Carlotta Corday o per quella Virginia di Castiglione che fu preziosissima alleata del Cavour per l'alleanza del Piemonte con Napoleone III: l'immaginario collettivo le consegna poi alla storia come figure positive o negative a seconda che la loro parte abbia vinto o perso. In tal senso, Dalila diviene immagine della perfidia femminile, ma Giuditta, che pure ha mozzato la testa a Oloferne, viene dipinta come un'eroina perché rappresentante di una religione che nel corso della storia ha vinto. In entrambe le figure però sarebbe vano cercare quella genuina sensualità, quell'ardore appassionato, quell'afflato erotico che caratterizzano invece un'altra donna fatale, Carmen, creatura libera che né l'amore, né la politica, né lo spirito di patria, né la religione riescono ad imbrigliare.
La vicenda di Sansone e Dalila non è dunque una storia d'amore, ma una storia di potere, e in secondo ordine di lotta tra due diverse visioni del mondo, quella pagana, con i suoi dei concreti, materiali, protettori della patria e della fecondità del territorio, e quella ebraica, con quell'incomprensibile Jahvè che sconcertò il politeismo quanto poi, in ambito romano, Cristo avrebbe scombussolato la Roma imperiale, attaccandola ideologicamente nel suo caposaldo economico, la schiavitù, messa in crisi dall'assunto che tutti gli uomini sono uguali.
Hugo de Ana, che ha curato la regia per l'edizione del Sansone e Dalila andato in scena al Regio di Torino dal 15 al 26 novembre, ha costruito un allestimento sontuoso, dove la grandiosità farisaica sovrastava nel suo splendore la schiavitù degli ebrei, dimessi e grigi dinanzi all'opulenza di un popolo dominante nel pieno fulgore della sua potenza. Se il primo atto vedeva le masse corali ai piedi del portico riccamente intagliato del tempio di Dagon, lo splendore orientaleggiante della dimora di Dalila, alcova di seduzione all'interno della quale a nulla vale la bruta forza di Sansone, era come un ponte di passaggio per il terzo atto, dove la sensualità barbarica dei filistei, affidata alle coreografie di Leda Lojodice, si svelava in tutta la sua forza panica, in un trionfo di nudità orgiastica, in un'esaltazione dell'erotismo che sovrastava totalmente il popolo sconfitto, la cui nudità sacrificale, vissuta con una vergogna patente nelle pose ravvolte e raggomitolate delle comparse, additava quello che è il vero spartiacque tra il politeismo e il mondo ebraico-cristiano: il concetto del peccato, e di un peccato che è tanto più grave quanto più dettato dalla carnalità dell'uomo.
Su questa idea di fondo, la regia di de Ana si sviluppava con estrema coerenza, avvalendosi dei video di Sergio Metalli per lasciar scorrere durante l'azione immagini di nudi maschili e femminili che andavano rarefacendosi come fumo, quasi a monito, da un lato, di un mondo che avrebbe ceduto il posto ad una visione completamente diversa dalla vita, e dall'altro, specialmente nella prima scena dell'atto III, dove su Sansone ormai cieco e incatenato scorrono immagini esplicitamente allusive all'amore fisico, che se per l'eroe predestinato da Jahvè è comunque il peccato più grave, e causa della sua rovina, è anche, e contemporaneamente come una nostalgia dolorosa di un amore vissuto solo da lui, dove la Dalila del ricordo è poco più che nebbia dinanzi alla Dalila reale dolorosamente svelatagli dal tradimento.
Su questa linea, di una vicenda interpretata nella sua valenza storico-ideologica di scontro di visioni del mondo e dunque di civiltà, si inquadravano anche i protagonisti, con una gestualità lenta, a tratti ieratica e statuaria, quasi mirante a far convergere l'attenzione degli spettatori non su Sansone e Dalila come personaggi, ma come simboli di una dinamica storica la cui valenza ha di fatto attraversato i secoli, riproponendosi quasi identica ad ogni snodo cruciale.
L'orchestra del Teatro Regio, guidata da Pinchas Steiberg, è riuscita a trarre dalla partitura di Sain-Saëns tutto il suo splendore barbarico, ma anche ed essenzialmente il suo intento descrittivo, che seguitava le passioni dei personaggi, fossero solisti o coro, evidenziando nei cori ebrei la malinconia, la sfiducia del popolo oppresso, ma anche il suo profondo misticismo, la certezza sempre e comunque di essere un popolo eletto, e nei cori filistei il trionfo della carne sullo spirito, della materia sull'eternità della storia. Le sonorità erano sempre perfettamente equilibrate, senza mai sovrastare i cantanti, in una gamma che andava senza sforzo dai forti ai pianissimo senza un attimo di cedimento, evidenziando una perfetta coesione orchestrale, priva di squilibri tra la sezione archi e quella dei fiati, in un amalgama orchestrale oggi davvero raro, che si traduceva in un'estrema morbidezza e facilità di suono che ha costituito senz'altro uno dei punti di forza dello spettacolo. Il coro del Regio, guidato da Claudio Fenoglio, ha mostrato la stessa professionalità e precisione, con una gamma timbrica che trovava i suoi accenti più suggestivi nel primo atto e soprattutto nel responsorio del primo quadro del terzo atto.
Andrea Comelli, nel ruolo del satrapo Abimelech, ha evidenziato un timbro interessante, unito ad una tecnica valida e a un volume di suono che potrà permettergli in seguito di affrontare ruoli ben più impegnativi. Di notevole effetto il vecchio ebreo di Sulkhan Jaiani, un basso dalla voce morbida e piena, con bei filati e pianissimi davvero suggestivi.
Claudio Sgura, nei panni del sommo sacerdote di Dagon, ha interpretato con notevole vigoria il suo ruolo, dando prova di una voce dal timbro bronzeo e di notevole potenza, con una zona media molto interessante e degli ottimi gravi. Dotato di bella presenza scenica, ha non solo cantato ma anche recitato, riuscendo ad imprimere al personaggio tutta la ferocia e la determinazione che gli compete, unite ad una sensualità barbarica che ha trovato il suo momento migliore nel duetto con Dalila del secondo atto.
Daniela Barcellona è riuscita da un punto di vista drammatico a rendere molto bene l'aspetto più inquietante di Dalila, la sua sensualità fredda dietro la quale è sempre in agguato il calcolo, la perfidia: perfettamente a suo agio nel ruolo vocale, ha confermato le sue doti di mezzosoprano dotato di un'eccellente zona media, dal timbro caldo e pieno, con una zona acuta di una luminosità davvero rara. Ha interpretato in maniera eccellente tutte e tre le celebri arie di Dalila, trovando il suo punto di forza sia nell'aggressività drammatica di Amour! viens aider ma faiblesse, dove la sua estrema abilità nei passaggi di registro è riuscita ad emergere appieno, sia nell'ingannevole dolcezza di Mon coeur s'ouvre a tà voix, dove, come in Printemps qui commence, la lunghezza della sua voce le ha permesso bellissimi filati, consentendole di cantare sulla voce quasi tutta l'ultima aria citata.
Gregory Kunde, Sansone, si conferma ancora una volta un grandissimo tenore, dotato di una voce piena e pastosa, capace di affrontare con successo i ruoli più impervi: vero e proprio Heldentenor, immune dalla ricerca dell'acuto spettacolare, sempre attento alla qualità più che alla quantità del suono, è riuscito a rendere anche vocalmente le lacerazioni intime dell'eroe biblico, passando dalla calda passionalità del duetto con Dalila all'estremo dolore di Vois ma misère, hélas!, in un perfetto controllo dell'intonazione che si traduceva in acuti sempre assolutamente coperti ed in un suono pieno, brunito ma al tempo stesso luminoso.
Giuliana Cutore
28/11/2016
Le foto del servizio sono di Ramella & Giannese - Teatro Regio di Torino.