RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

San Francesco, non il solito cantico

Programmaticamente antinarrativo già dal sottotitolo “Scene francescane in tre atti”, Saint François d'Assise di Olivier Messiaen, in realtà, di francescano non ha molto: gli mancano il basilare pauperismo (coro sterminato, orchestra di circa centoventi elementi), l'inclinazione minimalista (quattro ore di musica) e, forse, anche l'umiltà, dato che il sottotitolo in questione implicitamente rimanda a certe epocali didascalie wagneriane – “Azione” per Tristano, “Sacra rappresentazione” per Parsifal – volte anch'esse a enfatizzare l'atipica teatralità di quelle opere. Quanto poi al tortuoso Messiaen librettista, la sublime elementarità dei versi del Poverello di Assisi non potrebbe essere più distante.

Per quanto Saint François resti uno degli ultimi baluardi del teatro lirico di fine Novecento, sta di fatto che sono ormai trascorsi quarant'anni dalla première parigina (e più di trenta da quella produzione salisburghese, regia di Peter Sellars, che ne segnò la definitiva consacrazione): sicché lo spettacolo andato in scena all'Opera di Stoccarda torna a utile a storicizzare, in qualche modo, il lavoro di Messiaen, aprendolo a nuove letture. Regista d'avanguardia – se questo termine ha ancora un senso – tra le più stimolanti del recente panorama internazionale (in Italia si sono potuti vedere suoi lavori solo alla Biennale di Venezia), Anna-Sophie Mahler destruttura la paratattica drammaturgia di quest'opera, traendo nuova linfa proprio dalla sua sostanziale antiteatralità e trasformandola in una sorta di happening dove il palcoscenico è semplicemente una delle dimensioni possibili. Il risultato? Un San Francesco non soltanto alieno da aneddotica spicciola e calligrafismi in stile Fratello sole, sorella luna (di questo già si doveva dare atto a Messiaen), ma assai originale nel porre in secondo piano la dimensione trascendente, privilegiando l'interazione con la natura (con quel tanto di plusvalenza sociale che ha oggi il green) e la componente materica, addirittura terragna, del rapporto tra Francesco e il Creato. La stessa fisicità tutt'altro che ascetica, anzi florida e debordante – benché duttilissima – del baritono Michael Mayes (una complessione più da Fra' Melitone che da San Francesco) è il miglior viatico per un'operazione siffatta.

Dunque, in coerenza con una partitura dove ogni quadro fa storia a sé, non uno spettacolo ma tre spettacoli in uno, molto diversi tra loro per ambientazione e cifra visiva. La prima parte – forse la più riuscita, comunque registicamente la più rigorosa – vede l'orchestra sul palco dietro a un velo trasparente, mischiata tra macchie di alberi (la musica come voce della natura), ed è caratterizzata da una teatralità povera, materica, densissima: restano memorabili la carcassa della lepre – il lebbroso, guarito dal santo, in francese si dice lépreux – adagiata al proscenio e replicata da una proiezione sul fondale, cui un Francesco-marionettista muovendone le zampe tenta d'insufflare nuova vita; la pioggia di terra che seppellisce il corpo dell'animale; il vibratile agitar di mani del protagonista, che preludono alla sua simbiosi con gli uccelli; il lebbroso rappresentato come un fantascientifico pupazzo avvolto in un candido involucro a bolle.

Concepito come itinerante (un modo di replicare le stazioni del cammino di Francesco verso Cristo, e anche di affratellare gli spettatori), lo spettacolo nella seconda parte si sposta in un parco cittadino, sfondo quasi tautologico del tableau della predica agli uccelli: fino ad allora in abiti neri da concerto, gli interpreti calzano sandali o scarpe da ginnastica, indossano tonache ecologiche con materiali di risulta (il lebbroso invece, riconquistata la normalità, indossa lui il vestito scuro) e via, tutti in cammino, artisti e pubblico. Ovviamente in caso di maltempo era prevista una soluzione alternativa al chiuso, in parte restando in teatro e in parte, mantenendo lo spirito viandante, trasferendosi nel Duomo cattolico di Stoccarda; le sorti della meteorologia hanno voluto che sia stata questa la combinazione nella recita di cui si dà conto, e non tutto il male vien per nuocere: visti nella finzione del palcoscenico, i bellissimi uccelli di legno realizzati dalla scenografa Katrin Connan – in realtà veri e propri cartelli stradali, con tanto di asta e basamento, a forma di volatile – acquistavano una densità semantica che nel parco, attorniati da pennuti veri, sarebbe forse in parte svaporata. Più dispersiva invece l'idea di registrare, non mettendolo in scena ma facendolo ascoltare in cuffia durante il cammino, uno dei tableaux (non a caso l'unico dove il protagonista è assente: quello dell'angelo che bussa alla porta del convento).

L'ultima parte ci riporta a teatro. Un tipo di teatro – questa volta – meno disadorno e più spettacolare, forse anche più tradizionale (qui l'orchestra torna in buca): teli strehleriani, superfici specchianti alla Svoboda, coro che avanza strisciando, l'ascesa al cielo di Francesco come metamorfosi sancita dalla proiezione d'una libellula che, tra mille spasimi, passa dallo stato larvale a quello d'insetto. Direttore amante delle sfide, Titus Engel si mette al servizio dello spettacolo senza abiurare alle ragioni della musica: la drammaturgia timbrica del Saint François (è sul piano ritmico-coloristico, non su altri fronti, che Messiaen sa essere un narratore e un drammaturgo) viene restituita in tutte le sue combinazioni, l'orchestra dell'Opera di Stoccarda si fa onore, percussioni e Ondes Martenot in primo piano. E ancor più impressionante è il coro, mattatore del finale, con le sue sonorità ora compatte ora riverberate, ma sempre di perfetto amalgama nonostante lo smisurato numero di elementi.

Quanto a Mayes, è attore formidabile e dicitore pregnantissimo: con un'emissione aperta negli acuti che potrebbe danneggiarlo nel grande repertorio italiano, ma ideale per San Francesco (e che lascia una gran voglia di risentirlo come Wozzeck). Più classicamente morbida e rifinita la fonazione dell'altro baritono, Danylo Matviienko (frate Léon); di straordinaria intensità e penetrazione il tenore Moritz Kallenberg nel ruolo del lebbroso; forse un po' fissa, per una scrittura che guarda ad archetipici modelli di soprano leggero, la voce di Beate Ritter nella parte dell'angelo. Il gruppo degli altri monaci resta piuttosto anonimo, senza grandi differenziazioni: s'intuisce un buon fraseggiatore nel malevolo frate Elie del tenore Gerhard Siegel, ma il suo personaggio si racchiude nel tableau registrato e dobbiamo limitarci ad ascoltarlo in mp3.

Paolo Patrizi

30/6/2023

La foto del servizio è di Martin Sigmund.