Le gioie della famiglia
Stefania Rocca e Franco Castellano
L'Austria felix di fine Ottocento, regno da operetta intessuto di trine, piume di struzzo e spumeggianti valzer, doveva la sua compatta immagine di paese ordinato, efficiente e in grado di cingere la doppia corona, austriaca e ungherese, anche e soprattutto all'ideologia cattolica, capace di garantire da un lato ottimi rapporti colla Santa Sede, e dall'altro di fornire una morale dominante priva di sbavature e deviazioni, improntata sulla sacralità della corona e sulla rigida osservanza di regole in formale armonia con i dieci comandamenti e con le istruzioni pretesche, armonia estrinseca che impediva di fatto qualunque sia pur minimo scossone sociale che potesse mettere in discussione la separazione, voluta da Dio, tra le classi sociali. È chiaro che la chiave di volta di questo agghindato sistema, come del resto in tutti gli altri stati, cattolici e non, era la famiglia, ordinato microcosmo specchio del macrocosmo della nazione: una solida, salda famiglia, borghese o aristocratica, ben conscia della propria posizione sociale, dei propri doveri sociali, della propria rispettabilità sociale, che le assicuravano vantaggi, benessere, ma innanzitutto onorabilità, vago concetto caratterizzante comunque una vita ordinata e morale, dotata di utili amicizie, di conformità ai comportamenti della propria classe, con matrimoni più o meno combinati, figli ossequienti alle regole e così via. In una parola, il più bieco conformismo, unito all'ostinato rifiuto di pensare con la propria testa.
Ma cosa accadeva quando questo equilibrio veniva sconvolto? Uno scandalo, che si traduceva immediatamente in una messa al bando dal proprio ambiente, con amici, o presunti tali, che si allontanano all'istante, fidanzamenti che si rompono, persone che non ti salutano più, in una parola l'ostracismo sociale.
Tale è la situazione descritta da Arthur Schnitzler nel dramma Scandalo, andato in scena al Verga di Catania il 23 febbraio (con repliche fino al 28), per la regia di Franco Però; il titolo originale, Das Vermächtnis, suona come dono, lascito, eredità, che il traduttore, Ippolito Pizzetti, ha mutato appunto in Scandalo, forse per meglio focalizzare ideologicamente il lavoro. In effetti però il testo di Schnitzler è già abbastanza calibrato su una critica ai costumi dell'Austria di fine Ottocento, stigmatizzati non solo dai dialoghi, ma soprattutto dalla tipizzazione dei personaggi, dal padre deputato molto ma molto preoccupato della sua rispettabilità, passando per la madre, di buon cuore ma di fatto imbelle, per un fidanzato specchio del più trito conformismo borghese, per una figlia che pian piano si ribella sino all'esplosione finale. A tali personaggi fa da contraltare una bella, libera figura di vedova, che rivendica i diritti della sensiblerie, sorta di cattiva coscienza di tutti gli altri, ma anche lei alla fine costretta a non seguire le ragioni del cuore, ma quelle di una figlia che ha paura del deviante, rappresentato da Toni, ragazza di bassa estrazione sociale, che ha avuto un bambino dal figlio del deputato, Hugo, che in punto di morte obbliga la madre a giurare che si prenderà cura di Toni e del bambino. La famiglia rispetta la promessa, o almeno ci prova, e accoglie in casa la ragazza madre e il figlio, ma l'eredità di Hugo si rivela da subito foriera di scandalo: il fidanzato della figlia recalcitra, gli amici si defilano, si delinea insomma l'ostracismo sociale, al quale i coniugi Losatti non sanno come reagire, nonostante Emma, la vedova del fratello della signora Losatti, metta continuamente l'accento sul fatto che Toni è comunque la madre del loro nipotino, e che quel bambino, insieme alla donna che comunque Hugo ha amato, è tutto ciò che rimane loro del figlio morto.
Crudeli i dialoghi, che estremizzano il contrasto tra la morale cattolica e l'umanità di Emma; terribile e conseguente lo svolgimento, col bambino che muore, libera di fatto i Lusatti e li lasciaarbitri di cacciare Toni, che rifiuta il denaro offerto e va via lasciando un ambiguo biglietto. Un atto d'accusa a quella che Sartre avrebbe chiamato la malafede, ossequio passivo a ciò che trova la sua ragion d'essere solo nell'essere approvato dai più. Un colpo al cuore al perbenismo cattolico, con una giovane donna rea solo di non aver voluto abbandonare il figlio per ritornare nell'alveo della famiglia d'origine, giacché il padre sarebbe stato disposto a riprendersi in casa lei ma non il bambino.
Un dramma intenso, didattico a tratti, talvolta con ingenuità da fine Ottocento che lo Schnitzler più maturo avrebbe abbandonato, imperniando romanzi e drammi sugli assunti della psicoanalisi freudiana, ma che ha ancor oggi molto da dire, specialmente in un paese come il nostro dove la Chiesa continua a condizionare le scelte politiche, mischiando morale cattolica e diritti civili con argomentazioni speciose, ribadite meccanicamente da certa politica becera che va cianciando di bambini che hanno bisogno di un papà e di una mamma e non di una coppia omosessual, e dimentica i tanti neonati buttati dalle mamme nei cassonetti della spazzatura, soffocati o esposti a violenze pedofile, che la dicono lunga sulla pretesa naturalità dei rapporti parentali.
La regia di Franco Però ha reso con mano fluida l'impatto ideologico del dramma, grazie anche alle scene essenziali ma eleganti di Antonio Fiorentino e ai bei costumi di Andrea Viotti. Di buona levatura l'interpretazione di tutta la compagnia, da Franco Castellano che ha tratteggiato un Adolf Lusatti spontaneo pur se a tratti alquanto esagitato, a Stefania Rocca, ben a suo agio nell'ambiguità di fondo del personaggio di Emma, da Ester Galeazzi a Lara Komar, passando per Federica De Benedittis, Andrea Germani e Astrid Meloni, che ha delineato efficacemente Toni senza indulgere a facili patetismi che avrebbero sminuito la carica eversiva che Schnitzler, più che a Emma, aveva affidato proprio al personaggio della ragazza madre.
Giuliana Cutore
25/2/2016
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