Tosca… finalmente!
È ormai raro che la regia di un'opera lirica non sia il prodotto di superfetazioni più o meno cervellotiche, tese a sovrapporsi in maniera assolutamente arbitraria sia al testo che alla musica, trovando la propria giustificazione in una presunta attualizzazione del melodramma, con la finalità conseguente di avvicinare un pubblico sempre più giovane alla lirica. Giustificazione che a un più attento esame si svela come una pietosa scusa alle smanie di protagonismo di certi metteurs en scène, desiderosi solo di prevaricare un tutto organico e coerente che ha già in sé quella stessa attualità perenne tipica della tragedia greca, che guarda caso riceve da anni eguali maltrattamenti modernisti e distraenti dal testo. Sì, perché a ben vedere, a prescindere da un'ambientazione moderna o fuorviante il cui unico fine sembra quello di fare a pugni col libretto, il vero crimine perpetrato da tali sedicenti registi è soprattutto quello di distrarre e disturbare lo spettatore dalla fruizione di ciò per cui ha pagato il biglietto: assistere a un'opera lirica, gustarne la musica e ascoltare in santa pace i cantanti. Come si può ascoltare un'aria, valutare un cantante o un'orchestra se si è continuamente scocciati da comparse che vagano senza costrutto per la scena, correndo indaffarate di qua e di là come casalinghe in ritardo al supermercato? Come si può realizzare appieno la bellezza dell'intermezzo della Carmen se al regista salta in mente di piazzarci sopra ballerini di flamenco forniti di scarpette chiodate? Cosa mai capirà un giovane che per la prima volta assista alla Norma se la vedrà ambientata in un ospedale o sarà costretto a sorbirsi una protagonista assillata e perseguitata da una presenza funerea che ne imita pedissequamente le movenze più o meno come un'ombra dotata di vita propria? Per nostra grande fortuna, la regia firmata da Renzo Giacchieri per la Tosca andata in scena al Bellini di Catania il 25 ottobre (con repliche fino al 3 novembre) si è mantenuta assolutamente immune da tutte queste stranezze, restituendo al pubblico un'ambientazione coerente, rispettosa del libretto e della psicologia dei personaggi, delineati a partire da quei caratteri dei quali Giacosa e Illica avevano voluto dotarli, e mutando solo piccoli particolari con l'unico fine di meglio eviscerare quanto già suggerito dal libretto. Ed ecco Cavaradossi restituito alla sua passionalità e alla sua ingenua e focosa baldanza rivoluzionaria, Tosca appassionata e gelosa, posta di fronte a un potere più grande di lei, ma soprattutto Scarpia, sfrondato di tutte quelle caricature sessuali sulle quali molti blasonati registi si sono impuntati, riducendolo quasi a uno scimmione in calore, lontanissimo dal freddo implacabile demonio, e dal “bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina” descritto da quel lucido anticlericale che era Illica.
Le uniche deviazioni che Giacchieri si è concesso potevano essere notate solo da uno spettatore molto attento e che conoscesse bene il libretto, e che appunto in quanto tale ha potuto apprezzarle nella loro originalità: la prima, quasi inavvertita, è stato il piede di Scarpia che bloccava la lunga sciarpa di Tosca, quasi una catena, quando la donna sta per fuggire dallo studio con l'intento di correre dalla regina a chiedere la grazia per il suo pittore, esplicitazione di quella tirannia del potere poliziesco dalla quale la donna non può più fuggire. La seconda, che traversava tutta la regia, è stata concedere un ruolo più incisivo a Spoletta, dipingendolo sin dalla sua prima comparsa sulla scena come l'anima dannata di Scarpia, l'aguzzino che nel suo zelo vuole superare la crudeltà del maestro, sempre incombente anche con la sua sola presenza (a questo fine gli sono state restituite a metà del secondo atto tre minacciose battute in latino, Judex ergo cum sedebit/Quidquid latet apparebit/Nil inultum remanebit, quasi sempre omesse), e che s'incarica, dopo la farsa dinanzi a Tosca del conte Palmieri, di esplodere il colpo, non visto dalla donna, che ucciderà il pittore. A ben vedere, una deviazione che altro non fa che esplicitare quella che è la vera tematica del capolavoro di Puccini, nel quale i più scorgono solo una sfortunata storia d'amore e gelosia: l'ineluttabile e tragico destino di chi voglia da solo ergersi contro il potere, sempre vincente di fronte al singolo, in grado di usare non solo la violenza, ma anche e soprattutto l'inganno e la menzogna pur di raggiungere i propri fini.
A questa regia rispettosa, misurata sia nella gestualità che nei movimenti dei personaggi e delle masse, si sono aggiunte scenografie fedeli e funzionali che permettevano all'azione drammatica di svolgersi senza soverchi impacci, e i bei costumi di Mariana Fracasso, fedeli all'epoca e molto allusivi nella scelta dei colori, soprattutto per quanto riguardava la protagonista.
Sul fronte musicale va detto che la direzione di Luigi Piovano si è distinta per precisione di attacchi e per la scelta oculata dei tempi, riservando all'orchestra tutto il ruolo preponderante e drammatico che la partitura prevede. Ottima la resa degli archi, in particolare i violoncelli nel terzo atto, così come quella dei fiati, mentre le percussioni hanno svolto egregiamente il loro compito, senza mai debordare sul resto dell'orchestra, contribuendo a una pulizia di suono che è stato il tratto distintivo di tutta la compagine.
Il coro diretto da Luigi Petrozziello ha saputo infondere al Te Deum del primo atto la giusta componente ieratica e solenne, sulle quali le parole di Scarpia si stagliano come un barlume d'inferno, risolvendo con perfetta intonazione anche la parte a cappella. Di buon livello anche il coro di voci bianche “Vincenzo Bellini” diretto da Daniela Giambra; va notato in proposito che il ruolo del Pastorello nel terzo atto è stato anch'esso restituito a una voce bianca, che si è ben disimpegnata, unendosi col suo particolare timbro alla lattescente alba descritta da Puccini e punteggiata dalle campane di Roma. Di buon livello anche i comprimari, dal sagrestano di Angelo Nardinocchi all'Angelotti di Alin Anca e a Dario Giorgelè nel doppio ruolo di Sciarrone e del carceriere, mentre Riccardo Palazzo, Spoletta, è riuscito a distinguersi soprattutto dal punto di vista della drammaturgia e della mimica, rendendo appieno la figura del perfido aguzzino.
Roberto Aronica, Cavaradossi, dopo qualche esitazione emotiva in “Recondita armonia”, di cui ha anticipato in maniera ben percettibile l'attacco, ha dato prova di una voce piena, molto luminosa negli acuti, abbastanza lunga e duttile, che gli ha permesso di avere agevolmente ragione del ruolo, sia nel duetto del primo atto, sia nel secondo ma soprattutto nel terzo, dove “E lucean le stelle” ha strappato calorosi e meritati applausi a scena aperta, e l'insistente richiesta di un bis, che naturalmente non ha avuto seguito. Unico neo della sua performance un lieve vibrato, specialmente nelle zone media e grave, al quale il bravo cantante potrà certamente ovviare con più precisi passaggi di registro.
Il baritono coreano Leo An, Scarpia, si è distinto per una voce calda e dalla salda brunitura, per una dizione eccellente, per una perfetta intonazione, ma soprattutto per un'aderenza sia vocale che drammaturgica al personaggio che ha fatto del secondo atto senza dubbio il punto più alto e coinvolgente dell'intera rappresentazione. In proposito va notato che anche il passo della cantata di Tosca, fuori scena e accompagnato dal coro, punteggiato dalle beffarde parole del capo della polizia, è stato reso con assoluta precisione ritmica e melodica, permettendo di seguire senza sbavature tutte le linee di canto.
Quanto alla protagonista Ekaterina Sannikova, giovane soprano ucraino, ha unito a una bellissima presenza scenica e a una verve drammatica di tutto rispetto una tecnica eccellente, che le ha consentito di aver ragione senza difficoltà di un ruolo certamente impervio dall'inizio alla fine: voce lunga, dagli acuti sempre perfettamente coperti, omogenea in tutti i registri, ha dato prova di un ottimo fraseggio che ha evidenziato la sua musicalità, insieme a legati eseguiti senza sforzo e con un controllo egregio del fiato. In particolare, il suo “Vissi d'arte”, cantato sulla voce e con un uso quanto mai accorto e sapiente della maschera, è stato senza dubbio il momento più alto della sua performance, e il pubblico le ha testimoniato un lunghissimo ed entusiastico applauso a scena aperta.
Giuliana Cutore
26/10/2022
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.
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