RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

E avanti a lui tremava tutta Parma

Dopo il Rossini del Barbiere e il Donizetti dell'Elisir, al Teatro Regio di Parma va in scena Tosca. E a ben vedere, una città che deve ringraziare i Farnese per buona parte della sua storia non poteva che puntare su questo titolo per l'omaggio al centenario pucciniano. Tanto più che, in relazione al celebre festival autunnale, è nota l'affermazione di Verdi che, se fosse stato ancora in forze, l'avrebbe volentieri musicata lui.

La Tosca di Sardou debuttò a Parigi nel 1887. Puccini la vide al Dal Verme di Milano due anni dopo, rimanendone colpito: nell'aprile di quello stesso 1889, il suo Edgar sarebbe caduto, inducendolo ad appendere la penna al chiodo, un po' come Verdi col suo Giorno di regno . Ma dopo i successi torinesi di Manon Lescaut (1893) e Bohème (1896), venne il turno dell'eroina romana, presentata il 14 gennaio 1900 proprio a Roma al Teatro Costanzi, su libretto dei già rodati Illica e Giacosa. Curioso che Mahler, dopo averla ascoltata a Leopoli nel 1903, l'abbia giudicata malissimo…

De gustibus; ma se il 18 maggio 1911 il buon Gustav lasciava questa terra, centotredici anni e un giorno dopo, il 19 maggio 2024, la Tosca di Puccini rinasce in esultanza nella seconda delle quattro recite previste al Regio di Parma. E con un cast pregevolissimo. Nel rôle-titre, Maria José Siri trova modo di emergere, facendosi apprezzare per la sua voce chiara e luminosa, con centri ben dominati e acuti potenti, lunghi e tenuti («Io quella lama gli piantai nel cor»), lievemente meno prestante nei frequenti affondi al grave, dove perde un po' di consistenza. È forse per questo che in «sogghigno di demone» e in altre espressioni preferisce attenersi alle note scritte (Mi bemolle – Re) anziché risolverle in “parlato”. Grande espressività va poi riconosciuta nell'unica aria a lei concessa, interpretata con intenzione e sensibilità, che suscita un applauso entusiasta e richieste di bis. È una visione nostalgica, quella che emerge dal suo Vissi d'arte, una visione trasognata, in linea con la sua Tosca che, forse per disegno registico, appare algida e distaccata persino nella scena dell'omicidio (quella che tanto inorridì Herr Gustav), e si rispecchia nella prestazione attoriale, manchevole un poco di naturalezza e mobilità. Dettagli di poco conto, ad ogni modo, quando si dispone di una voce così.

Dopo averlo lasciato a Genova quale Jacopo Foscari, ritrovo qui con piacere Fabio Sartori nel ruolo di Mario Cavaradossi. E ritrovo anche la sua bella voce tenorile, stentorea, piena e levigata, di fibra robustissima, che non fatica a raggiungere il La diesis di «Vittoria» e il Si di «costasse». Ma il Cavaradossi di Sartori non è solo questo. In analogia col Vissi d'arte di Siri, il suo Recondita armonia si veste di nuance trascoloranti, grazie allo sfumare in diminuendo sia su «armonia», sia su «diverse», aderendo – perlomeno un po' più di quanto si senta fare di solito – al p e al pp prescritti da Puccini. Non è un canto spiegato, o esaltato, quello di Cavaradossi (almeno qui): è un canto di contemplazione del mistero dell'arte: quasi un sussurro. I Bravo e gli applausi fioccano assicurati, ma mai quanto all'altro e più atteso banco di prova, E lucevan le stelle, prontamente bissato. Ovazione e visibilio, com'è giusto per un pezzo sublime e cantato qui oggettivamente molto bene, eppure con qualche riserva. È pur vero che per tutto il brano, Puccini non scrive una dinamica che sia una, a parte un f crescendo su «E non ho amato» e qualche rit. qua e là; ma è da desumersi, dal pp agli archi, che il canto non debba innalzarsi oltre il p. Anche qui, è un canto raccolto, tutto rievocazione di fruscii e sensualità alluse, che mira a disfogarsi sulla disperazione finale, accumulando tensione. Farla fin da subito f o comunque calcando i toni troppo presto, toglie magia dopo. Ed è qui che Sartori pecca nell'indugiare poco nella sfumatura, nella mezza tinta, nel “canto di grazia”, di cui comunque dà prova in O dolci mani. Sfumature e mezze tinte che si sarebbero volute in una parola più presenti, assieme a una recitazione un po' più partecipata.

Sia Siri, sia Sartori, che risolvono i duetti al primo e terzo atto con bell'equilibrio, si attengono a una stretta osservanza del dettato pucciniano, senza corone arbitrarie o concessioni di tradizione («Entrava ella fragrante» pulito e sobrio). È anche per questo che su «O dolci baci, o languide carezze» Sartori non si attarda a fare il diminuendo: perché di fatto non è previsto.

Chi davvero grandeggia è lo Scarpia di Luca Salsi. Quello che vale per la coppia Siri-Sartori non vale per lui, che si prende alcune libertà assolutamente legittime, dal momento che il suo tema, coi tre accordi “demoniaci”, apre l'opera e continua ad aleggiare ancora dopo la sua morte, quasi che sia il personaggio principale: quell'«In chiesa!» che trasuda ipocrisia, quel «Ma fatelo tacere!», detto sbattendo (e con che forza!) uno dei numerosi crocifissi sul tavolo, il suo «Va', moribondo» ancora ben distinguibile», il «Portatemelo via» esasperato, il suo «Aiuto… muoio…» che esce strozzato, congesto, mentre con una manata fa piazza pulita delle suppellettili sul tavolo: Salsi non solo interpreta: diventa Scarpia. L'ottimo lavoro attoriale, comprese movenze del capo, espressioni del volto, il lascivo avvicinarsi a Tosca all'interno di quella che Edward Hall chiamava “distanza intima”, che nella Roma del 1800 suonava ancor più provocatoria, si accompagna a una voce straordinaria per colore, timbro, volume, omogeneità e robustezza, usata come meglio non si potrebbe soprattutto nel cesello della parola, che esce nitida e significativa praticamente ad ogni battuta.

Encomiabile poi l'Angelotti di Luciano Leoni. La sua è una bella voce scura, che si vorrebbe riascoltare in ruoli più estesi. Convincente anche il Sagrestano di Roberto Abbondanza, di strumento solido, sicuro, “parlante”, calato in un'interpretazione che, vivaddio, non fa della macchietta il suo unico motivo di attrazione. Anzi, senza scadere nei soliti cliché, sottolinea la doppiezza del personaggio cambiando radicalmente atteggiamento all'arrivo di Scarpia, diventando tremante e reverente ma senza ridicolizzarsi.

Buone anche le prestazioni di Marcello Nardis (Spoletta), Eugenio Maria Degiacomi (Sciarrone), Lucio Di Giovanni (Un carceriere) e del Pastorello, anzi in questo caso della Pastorella, di Sofia Bucaram.

Di grande impatto il preparatissimo Coro del Regio di Parma, istruito da Martino Faggiani, assieme al Coro di Voci Bianche, sempre del Regio, diretto da Massimo Fiocchi Malaspina.

La Filarmonica Arturo Toscanini riesce a dare il suo meglio sotto la direzione di Daniel Oren (stavolta senza kippah). I due meriti principali sono l'aderenza ai voleri di Puccini, all'insegna di una grande sobrietà di intenzioni, senza slargamenti “a strappacuore”, come detto prima per i cantanti (e non è freddezza o mancanza di interpretazione: è precisione), e un ottimo bilanciamento tra buca e palcoscenico. Un'attenzione quasi maniacale data ai rilievi strumentali corrobora poi una visione altamente sinfonica della partitura, che al Sor Giacomo non sarebbe dispiaciuta: dopo «Egli vede ch'io piango», il gioco interno di violini secondi e viole, testimoni del rovello di Tosca; le trombe guerriere che preparano il «Vittoria»; il dolentissimo semitono sincopato dei violoncelli durante l'interrogatorio (nº30 in partitura), o ancora fagotto e violoncelli che imitano il «vedi – le man giunte io stendo a te» sono espressivi, sottolineati e ben udibili. Raffinatezze strumentali, qui solo alcune a mo' d'esempio, che è giusto evidenziare, perché Puccini non le ha messe a caso. I tempi infine sono generalmente comodi, con un'interrogativa accelerata al finale del primo atto che lascia un po' interdetti.

L'allestimento nasce nel 1999 per il Comunale di Bologna e viene proposto al Regio per la terza volta, dopo il 2009 e il 2018. Joseph Franconi Lee sviluppa un'idea del suo maestro, Alberto Fassini, già assistente di Visconti, e declina la Tosca come un noir francese degli anni Cinquanta: un progetto concepito inizialmente per le recite con Raina Kabaivanska. Senza giungere alla dicotomia di Pizzi per i suoi Lombardi, tutto è giocato sul bianco e sul nero, ma vengono impiegate anche le scale del grigio, come nel caso della Madonna nel primo atto e l'angelo nel terzo, figure bidimensionali in cui un accennato trompe l'œil allude al marmo. Anche la tela dipinta di Cavaradossi, disposta per terra lungo una scalinata che ritorna al terzo atto, è grigia (ricorda un po' quella proposta da Livermore, Scala 2019, che si tingeva di colori per elettrico artifizio: qui invece la pittura è verosimile grazie a pennelli dal lungo manico). Lo è anche la riproduzione della Crocifissione di San Pietro di Guido Reni nel gabinetto di Scarpia, che incombe come presaga del destino. Ma questa tricromia di bianco, nero e grigio è bilanciata da opportuni tocchi di colore dei costumi, di William Orlandi, che firma anche le scene: bellissimo, ad esempio, il blu del primo abito di Tosca. Già detto ma occorre ribadirlo, colpisce la sovrabbondanza di crocifissi da tavolo, sfavillanti d'oro, sul desco di Scarpia, a sottolinearne il bigottismo che si intuisce di facciata. Di grande effetto e di grande spazialità la cupola di Sant'Andrea scorciata in prospettiva, dove sul fondo, durante il Te Deum, scorre una processione che si arresta su un baldacchino giallo, sopra il vescovo. A Scarpia, soggiogato, non resta che inginocchiarsi. Le masse corali e i figuranti sono mossi con intelligenza, sebbene a volte con qualche inverosimile teatralità. Suggestive anche le luci, e soprattutto le ombre, di Andrea Borrelli, che immergono sovente il dramma in quadri plumbei, già insinuanti il tragico finale, anche se al terzo atto sarebbe stato d'effetto uno schiarire progressivo il quadro notturno anziché optare per il bagliore rosso acceso di cui s'inostra l'ultima scena.

Il pubblico del Regio tributa sonori ed entusiasti applausi a tutto il cast, visibilmente gratificato. Qualche incoordinazione con apertura e chiusura del sipario durante i numerosi richiami a fine recita non fa che rendere più umani i sorridenti interpreti una volta usciti di ruolo.

Christian Speranza

22/5/2024

Le foto del servizio sono di Roberto Ricci.