RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Non la solita Lucia

Della Lucia non ci si stanca mai. Quella di Lammermoor, ovviamente. Quella composta da Gaetano Donizetti e presentata al San Carlo di Napoli il 26 settembre 1835. L'opera piacque fin dal suo debutto, cosa non scontata nella carriera del Bergamasco. E piacque anche ai Parigini, quando la ascoltarono per la prima volta al Théâtre Italien verso la fine del 1837: altra cosa non scontata, se si pensa che il soggetto (tratto da The Bride of Lammermoor di Walter Scott, pubblicato nel 1819 e subito tradotto in francese) circolava in veste musicale da almeno dieci anni, e che «la capitale del XIX secolo» importava una gran quantità di musica italiana. Piacque sì tanto, che Donizetti venne invitato a comporre altro dallo stesso Théâtre Italien e addirittura dall'Opéra. I rapporti non felicissimi con Napoli e il successo d'oltralpe convinsero Donizetti a troncare con la città partenopea e a trasferirsi a Parigi, cosa che avvenne circa un anno dopo, nell'ottobre del 1838. Un mese dopo s'inaugurava il Théâtre de la Renaissance, piazza minore che per sopravvivere ai decreti napoleonici doveva proporre un genere nuovo, autonomo, tutto suo: e s'inventò l'opéra de genre, termine ombrello sotto cui poteva inscenare opere in francese con numeri chiusi all'italiana, con deroghe varie ed eventuali alle diverse tipologie. L'impresario, Anténor Joly, si ricordò del successo della Lucia dell'anno prima. E perché non proporre una versione in francese di quell'opera? Detto, fatto: tradotto e adattato il libretto di Salvadore Cammarano dalla coppia Alphonse Royer e Gustave Vaëz, la nuova versione di Lucia andò in scena trionfalmente alla Renaissance il 6 agosto 1839. Era nata la Lucie de Lammermoor. Il trionfo fu tale, da indurre Joly a commissionare a Donizetti L'ange de Nisida, che poi rifluì ne La favorite perché la Reinaissance fallì; ma questa è un'altra storia.

Dunque solo una semplice traduzione? In realtà no. Chi conosce Lucia non farà fatica a riconoscere in Lucie gran parte dei suoi numeri musicali. Le due eccezioni maggiori sono rappresentate dalla sostituzione di Regnava nel silenzio con Perché non ho del vento, tratta da Rosmonda d'Inghilterra, pratica messa in atto dalla creatrice di Lucia, Fanny Tacchinardi-Persiani, già dal 1836 e che Donizetti avallò implicitamente, facendone approntare per l'appunto la traduzione francese, e la fusione di due personaggi in uno, nella fattispecie il Normanno e la Alisa italiani in Gilbert, grosso modo un Normanno al servizio degli Ashton che finge di essere amico di Lucia. Il che priva la protagonista di un supporto morale, seppur minimo, complice anche la soppressione del duetto con Raimondo, e la isola ancor più nella macchina politica del matrimonio per interesse. E, dato non da poco, resta l'unica donna dell'opera.

Non la solita Lucia, insomma. Una sua versione più sadica, se si vuole, drammaturgicamente differente. È proprio la Lucie ad essere presentata al Donizetti Opera Festival 2023. Escludendo l'anteprima riservata agli under 30 , la sala del Teatro Sociale di Bergamo la vede in scena per tre recite, sabato 18 e domenica 26 novembre, più la terza di venerdì primo dicembre, di cui si riferisce. Uno spettacolo, diciamolo subito, non memorabile, tolto il fatto della curiosità storica, con qualche luce e parecchie ombre.

Le luci sono sicuramente rappresentate da Vito Priante, da chi scrive già un ammirato Mr. Shadow al Maggio Musicale Fiorentino (marzo 2023) e qui un altrettanto ammirato Henri Ashton. Il suo bel timbro scuro, la voce calda e corposa si uniscono a una presenza scenica sciolta e a una mimica che lo vedono ben calato nel ruolo, dipingendo un fratello di Lucia cinico e talvolta strafottente, spietato e senza riguardi. Edgard Ravenswood è invece il congolese Patrick Kabongo. Per lui valgono quasi le medesime osservazioni fatte all'Edgardo scaligero di Flórez (aprile 2023). Il timbro è bello, lucente, moderatamente squillante, la voce è nitida, precisa e usata in modo molto tecnico; il punto è che Edgard non è per lui. Escludendo il volume non particolarmente pronunciato, sembra fatta più per il belcanto “di grazia” che per quello “di forza”. Ne risulta un Finale Secondo debole e per contro un primo e soprattutto un terzo atto ben fraseggiati, dove in Tombes de mes aïeux (Tombe degli avi miei) e in O bel ange, dont les ailes (Tu che a Dio spiegasti l'ali) ha modo di esplicitare le delicatezze e i colori di una voce che disegna un Edgard già oltre la morte. Poca azione sul palcoscenico e poca convinzione nelle movenze ne fanno però, assieme alla prestazione vocale, un personaggio non del tutto delineato, con aspirazioni all'eroismo ma una certa insicurezza di fondo. Voce più robusta, più scura e più drammatica per il Sir Arthur di Julien Henric, fra i tre tenori del cast quello più convincente, anche dal punto di vista della prestazione attoriale, aiutato in questo da una figura alta e armonica. Voce migliore anche di quella di David Astorga, impegnato in un Gilbert vocalmente corretto, ma che si sarebbe voluto più insidioso, più viscido (è pur sempre un doppiogiochista, l'anima nera che mette in moto l'inganno ai danni di Lucia), e che nel cercare di sdoppiarsi nei suoi due personaggi d'origine perde di vista una sua unità identitaria, tanto nella voce quanto sulla scena, dove risulta poco naturale. La carrellata di voci maschili termina con Roberto Lorenzi quale Raimond, il cui ruolo, come si diceva, scorciato rispetto a quello della Lucia napoletana, non gli impedisce di sfoggiare voce ampia e risonante, di buona cavata soprattutto nel registro baritonale, meno prestante nei gravi profondi.

Lucie è in questa produzione Caterina Sala. Dell'indisposizione che l'aveva vista portare a termine soltanto mezza recita alla prima, sembra non siano rimaste quasi più tracce. La sua voce è piacevole, morbida, rotonda nei centri ma tendente allo spigoloso negli acuti, che escono un po' strozzati, un po' appuntiti, specie nei passaggi di registro repentini. L'interpretazione difetta invece di fraseggio ed espressione e, complice anche una direzione che come si dirà non aiuta, risulta fin troppo eterea, poco mordace e poco partecipata, in questo livellandosi a Kabongo quanto a incisività sia vocale, sia scenica. Si riscatta però in Mon nom s'est fait entendre, la scena della pazzia, banco di prova di tassante complessità, qui mitigata dal non aver eseguito la funambolica cadenza di tradizione (la quale, oltre ad essere di molto posteriore, non è mai stata associata alla versione francese: e perché dovrebbe, poi?), che riesce piuttosto bene, anche se qua e là con punte di vibrato eccessive, un po' troppo metalliche. Bene anche per la resa dell'alienazione, teatralmente coerente senza paradossali quanto inopportuni isterismi.

Pierre Dumoussaud ringrazia degli applausi con un sorriso simpatico; ma oltre ad agitare la bacchetta sul podio, dovrebbe imparare a imprimere all'orchestra un po' di tridimensionalità. La direzione risulta piatta, ininfluente, senza particolari rilievi strumentali o motivici – che pure abbondano – e, con una concertazione ai limiti della sufficienza, contribuisce a quel senso di placido fluire senza sobbalzi né scosse elettriche sulla sedia che si riverbera, come detto, sui cantanti; alla morte di Edgard e allo spegnersi degli accordi conclusivi, la mia vicina di posto ha chiesto all'amica: ma è finita? Che fosse finita, dovrebbe essere quasi intuitivo; ma non gliene faccio una colpa, anzi, la sua ignoranza-nel-senso-buono-del-termine è risultato un ottimo termometro per misurare la temperatura emotiva della sala e le capacità comunicative del direttore.

L'Orchestra Gli Originali, che pure l'anno scorso in Chiara e Serafina aveva dato soddisfazioni, non se la cava meglio; il suono complessivo è opaco, non svetta neanche a volerlo, ma a intralciare ci si mette anche una buca che si approfonda molto sotto il palcoscenico, impedendo alle onde sonore di espandersi. La compagine utilizza strumenti d'epoca, per un maggior grado di aderenza al suono realmente concepito dal compositore; ma, se la scelta aveva avuto un suo perché in Chiara e Serafina, qui ne ha di meno, essendo Lucie il più tardo dei titoli in cartellone. Soprattutto corni e oboi risentono di parecchie imprecisioni, di attacchi non puliti e sincroni (meglio la sezione degli archi); la campana sul finale è registrata; ma se la prova dell'orchestra lascia l'amaro in bocca, a risollevare le sorti è il Coro dell'Accademia Teatro alla Scala, istruito da Salvo Sgrò, con una prestazione valida, partecipe e coesa.

Parlare della regia di Jacopo Spirei significa toccare un altro tasto dolente. Come chi conosce Lucia, si diceva, ritroverà in Lucie gran parte della sua musica, così chi conosce l'opera riuscirà a seguirne lo svolgersi anche in questo allestimento. Ma Dio abbia pietà di chi non la conosce, ché la vedrà ambientata dall'inizio alla fine in un plumbeo bosco d'alberi sullo sfondo, con un solo tronco in primo piano a simboleggiare la quercia dove Edgard e Lucie si sono giurati amore eterno. La fontana? Neanche a parlarne. Le scene di Mauro Tinti si esauriscono più o meno qui. Si aggiunga qualche panca di legno grezzo e tavoli consimili, tipo sagra paesana, per sposalizio e ricevimento, coi tavoli a mo' di passerella sulla quale Lucie alienata, coltello di prassi in mano e insanguinata come una macellaia (e per fortuna che, da libretto, «d'un coup mortel» e non «de plusieurs coups mortels» «a frappé son époux»!) fa avanti e indietro lungo tutta la scena della pazzia, e abbiamo finito. Ah, no. Resta da menzionare al terzo atto la carcassa di un'auto bruciata e alcuni corpi femminili gettati in fondo: ecco il cimitero, ecco le tombe degli avi di Edgard. Non pago, uno degli sgherri di Henri prende una tanica e cosparge di benzina sia la carcassa, sia i corpi. L'opera si conclude con lo stesso sgherro con un accendino in mano, pronto a dar fuoco a tutto. Su queste scene, illuminate da Giuseppe Di Iorio, Spirei, assistito da Alessandro Pasini, muove i personaggi in modo a volte originale, a volte prevedibile. Al Coro che si schiera alla ribalta, piuttosto stereotipato, si oppone ad esempio un Henri che schiaccia col piede una delle quattro comparse, forse doppi di Lucie, forse simboli della fragilità femminile, durante la sua cabaletta al primo atto, o che offre da bere un bicchierino a Edgard mentre questi lo sfida a duello – e qui bene o male questo gesto mette in evidenza, come si diceva, la strafottenza di Henri, in un dongiovannesco atteggiamento di invitare alla gozzoviglia chi non vuole far altro che ucciderlo, così come il perenne sghignazzare e sogghignare sbevazzando del coro alla volta di Edgard durante lo sposalizio e mentre muore, per irriderlo ancor di più (a Henri non resta che osservarlo un po' in disparte); ma perché una delle comparse/doppi deve muovere a scatti la testa durante tutta la scena della pazzia? O perché Lucie ed Edgard devono firmare un patto di sangue incidendosi le carni con una lama? Incongruenze che si ritrovano nei costumi di Agnese Rabatti, che veste le donne di abitini a fiori tinta pastello molto anni '60 (occhialoni fumé compresi) e gli uomini quasi tutti in completo e cravatta, o bretelle, camicie bianche, un po' Iene di Tarantino, un po' Goodfellas di Scorsese; Henri per il matrimonio della sorella è in smoking, con tanto di fascia ai fianchi; viene perdonato il papillon preannodato per esigenze di scena; Sir Arthur è in kilt in perfetto stile scozzese, unico aggancio alle nebbiose Highlands originali, che qui però perdono di senso, dato che null'altro rimanda alla drammaturgia originale, e saluta con la mano alla Queen Elizabeth; l'outsider è Edgard, giacca di pelle e jeans. «È James Dean o Lenny Kravitz, il bello e maledetto» (Spirei dixit). Non mancano le pistole per le minacce a mano armata. Il tutto, si badi, sempre nel plumbeo bosco di cui sopra. Coerente, per lo meno con ciò che dichiara Spirei di volere «un'ambientazione neutrale, contemporanea, novecentesca, ma senza collocazione precisa».

Se un merito c'è, è quello di sensibilizzare verso la violenza sulle donne, psicologica nel caso di Lucie, fisica, purtroppo e soprattutto, al di fuori del palcoscenico. Apprezzato è stato perciò il gesto di Caterina Sala di portare alla ribalta un paio di tacchi rossi, durante gli applausi finali, e di lasciarli lì, anche dopo la chiusura del sipario.

Christian Speranza

3/12/2023

Le foto del servizio sono di Gianfranco Rota.